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Evoluzione della crescita demografica

    Il popolamento e la sua evoluzione

    L’entità della popolazione piemontese nel tempo.

    Le più elaborate e dotte congetture non basterebbero a stabilire, con sufficiente approssimazione, l’entità numerica della popolazione del Piemonte nell’antichità classica e nel Medio Evo. In effetti mancano per quei tempi; non solo qualunque rilevamento sistematico, ma anche dati indiretti, tuttavia precisi e attendibili. Per avere un quadro fededegno della consistenza quantitativa della popolazione piemontese, occorre scendere ai tre secoli (XVI, XVII e XVIII) che segnano il consolidarsi e l’estendersi della instaurata e italianizzata monarchia sabauda.

    Sulla scorta del Prato, che resta studioso insuperato nel campo della demografia come dell’economia piemontese, gli antichi domini sabaudi, più i marchesati di Monferrato e di Saluzzo, contavano nel 1583 circa 750.000 abitanti. E, su per giù, la cifra data da un autore piemontese contemporaneo : il Botero. Non è improbabile che intorno a questa cifra fosse da più di due secoli stabilizzata la popolazione del Piemonte, dopo l’ascesa demografica cominciata nel secolo X e terminata con la famosa peste nera del 1348. Gli elementi statistici di cui si dispone indicano un accrescimento abbastanza rapido del numero degli abitanti nella seconda metà del secolo XVI, seguito da un brusco arresto e da un inizio di regresso al principio del Seicento. I totali del « calculo generale del 1612» danno, di fatto, meno di 700.000 abitanti.

    La peste del 1630 mietè dovunque un numero enorme di vittime. Nella sola capitale morirono più di 3000 persone, 5000 in Chieri, 4000 in Alessandria, 600 a Cuorgnè, 667 a Dronero, 1300 a Vercelli, 10.000 fra i riformati delle valli pinerolesi: i 4/5 della popolazione totale di Villafranca, i 2/3 a Racconigi, Moncalvo, Pinerolo. In Aosta appena 12 case furono esenti dal contagio e molte terre della valle rimasero completamente deserte. I morti si contavano a migliaia a Casale, Asti, Saluzzo, Nizza, Savigliano, nel contado di Acqui e di Fossano, a Cuneo, a Carignano, a Vigone, in vai Varaita. E siccome le disgrazie non vengono mai sole, ecco in quel disgraziato periodo aggiungersi, ai disastri della peste, i danni delle guerre.

    Queste tristi vicende danno facilmente ragione della sosta demografica che dura, attraverso movimentate variazioni, quasi un secolo. Le consegne del 1700 denotano una popolazione appena lievemente superiore a quella del 1612. Con i primi decenni del secolo XVIII comincia un periodo, favorito da saggezza di governanti e da lunghi anni di pace, di rapido, ingente incremento. Gli abitanti del Piemonte, dal 1734 al 1750, e cioè nel giro di diciottenni, fanno, se i calcoli sono esatti, un balzo del 46,3%! E giungono a 2.115.562. Ma nella seconda metà del secolo XVIII, durante un periodo di fiacca tranquillità e foriero di tempesta, il movimento ascendente, anziché intensificarsi, si arresta, tanto che all’irrompere della bufera rivoluzionaria, si avvertono in più luoghi (e nella stessa Torino) sintomi di spopolamento.

    Dopo la Restaurazione (1814), anche il Piemonte è investito dall’ondata demografica che, parallelamente alla rivoluzione industriale, trasforma il volto dell’Europa nel secolo XIX. Come si vede dalla tabella V a pag. 576, dal 1750 al 1848 il Piemonte ha veduto accrescersi la sua popolazione del 23,2%. Nei cento anni successivi il ritmo di ascesa continua, tanto che la popolazione aumenta ulteriormente del 28,5%. Ma tale ritmo non si mantiene costante: è assai modesto dal 1848 al 1861, poi va rapidamente crescendo fino al 1901, con un saggio di incremento decennale superiore al 14%: quindi declina al punto di segnare tra il 1911 e il 1921 una diminuzione. Ma si riprende ancora dopo il 1921 per arrivare ai 3.544.636 del 1951, con un aumento medio per decennio che non giunge al 5%.

    Forse, più che le cifre della popolazione assoluta, quelle della densità danno l’idea immediata della diversa progressione con cui si è sviluppata la massa della popolazione piemontese. La quale fino al 1850 all’incirca permetteva al Piemonte di figurare tra le regioni più fittamente abitate del Regno, con una percentuale di abitanti per chilometro quadrato superiore a quella media del Regno. Dopo il 1901, invece, il quoziente di densità della popolazione dello Stato supera costantemente quello del Piemonte, che passa così, tra le regioni italiane aventi media densità di abitanti.

    Nei suoi confini attuali (28.666 kmq. dei quali 3262 spettanti alla Valle d’Aosta) il Piemonte aveva al 31 dicembre 1958 una popolazione residente calcolata in 3.856.857 di cui 100.276 in Val d’Aosta. Il Piemonte, che nel 1871 veniva secondo dopo la Lombardia per popolazione assoluta, si trovava al quinto posto, superato come è, oltre che dalla Lombardia, dalla Sicilia, dalla Campania, dal Veneto. Quanto ad abitanti per chilometro quadrato con i suoi 131, il Piemonte, viene al 12° posto, preceduto persino dalla Calabria.

    Il movimento naturale della popolazione e l’emigrazione verso l’estero

    Il sapere come sia variata quantitativamente attraverso i tempi la popolazione piemontese va integrato con la conoscenza delle cause e delle vie attraverso le quali tali variazioni sono avvenute. Ora, i fenomeni che, discendendo la corrente dei secoli e delle generazioni, si vedono più decisamente interferire sul numero della popolazione sono: i° la diminuzione del saggio di incremento delle nascite; 2° il forte flusso migratorio; 30 l’attivarsi di correnti immigratorie compensatrici. Oltre a ciò, rimane fondamentale il fatto che questi fenomeni dinamici, come quelli di distribuzione, accusano differenze assai forti da provincia a provincia, dalla montagna alla collina, alla pianura.

    L’indice di natalità, che ancora a metà del secolo XIX si può calcolare si mantenesse intorno al 32‰, nei decenni successivi è andato declinando, prima, e cioè fino all’inizio di questo secolo piuttosto lentamente, poi con rapida, sempre più grave caduta, rimanendo costantemente al disotto della media dello Stato e confinando il Piemonte, sotto questo riguardo, agli ultimi posti nella graduatoria fra le regioni. Già sceso al 25,7‰ nel quinquennio 1905-09, al 17,7‰ durante il quinquennio 1925-29 e al 15,8‰ nel quinquennio 1935-39, l’indice di natalità fu nel 1947 col 13,3‰ il più basso di tutta l’Italia. Nel decennio successivo il declino continuò, pur subendo un rallentamento per cui nel 1958 esso fu del 12‰ – Il Piemonte non era più il fanale di coda ma si lasciava ancora dietro la Liguria, e il territorio di Trieste. Contemporaneamente sono andate appiattendosi le maggiori differenze che in tema di natalità si riscontravano fra provincia e provincia. Nel 1958 gli estremi hanno oscillato dal 10,3‰ della provincia di Alessandria al 14,‰ o della Valle d’Aosta.

    Emigranti fra un treno e l’altro alla stazione di Bardonecchia,

    Questa forte diminuzione delle nascite non fu affatto la conseguenza di una corrispondente contrazione del numero dei matrimoni. In realtà, il coefficiente di nuzialità subì appena una leggerissima flessione, passando dal 7,5‰ nel quinquennio 1905-09, al 7,5‰ nel quinquennio 1925-29, al 7,2‰ nel quinquennio 1935-39, per scendere ancora al 6,1‰ nel 1958, dopo un effimero rialzo nell’immediato secondo dopoguerra. E qui il Piemonte non si allontana dai valori medi delle altre regioni.

    Quanto alla mortalità essa diminuì parallelamente al diminuire delle nascite, ma più lentamente. Intorno al 1930 si poteva dire che il Piemonte era la regione d’Italia in cui si nasceva meno, ma si moriva anche meno. Oggi le cose stanno diversamente, e cioè peggio, nel senso che se in Piemonte si continua a nascere poco, si muore più che in quasi tutte le altre regioni d’Italia, avendosi nel 1958 un quoziente di mortalità dell’ 11,4% di fronte a quella media dell’Italia di 9,1‰- La grande riduzione della mortalità infantile è alle origini del sovvertimento per cui la mortalità complessiva è oggi inferiore nelle regioni del Mezzogiorno, che fino a pochi decenni fa, nella triste gara dei decessi, superavano di alquanto le consorelle del Settentrione. Più appiattite ancora che quelle relative al numero delle nascite, sono le differenze fra provincia e provincia per quel che concerne le morti, andandosi da un minimo (1958) del 10,7‰ per la Valle d’Aosta ad un massimo del 13,8 per la provincia di Asti.

    La diminuzione della mortalità non è stata sufficiente a mantenere attivo il bilancio demografico naturale che, saldatosi con un supero del 9,3‰ nel periodo 1881-1900, e dell’8‰ nel 1901-11, è sceso a 1,6‰ nel decennio successivo per risalire a 3,3‰ nel decennio 1921-30. Ma passati gli effetti della euforia postbellica, ecco nuovamente l’eccedenza dei nati ridursi al lumicino — poco più dell’1‰ nel decennio seguente — e rimanere addirittura al di sotto della soglia dello zero (—0,5) nel 1940, dando al Piemonte un poco invidiabile primato fra le regioni d’Italia, che tuttora perdura. Nel 1956 solo la Valle d’Aosta contava più nascite che morti (1,7‰). Tutte le altre province piemontesi contavano più morti che nascite, con un minimo di —0,2‰ spettante alla provincia di Cuneo, un massimo di —3,4 segnato dalla provincia di Alessandria, cui tiene dietro la provincia di Asti, con —3,2. Risparmiamo le considerazioni che si potrebbero fare osservando, per es., come le meno prolifiche tra le province piemontesi siano proprio quelle in cui la popolazione ha un più elevato grado di ruralità, mentre è in attivo una regione tipicamente montana, come la Valle d’Aosta, e mentre dal 1954 anche la città di Torino denuncia un graduale sensibile supero delle nascite rispetto alle morti (13.409 nascite e 9137 morti nel 1958).

    Ma prima che l’accentuato calo delle nascite venisse a rallentare l’incremento demografico della popolazione piemontese, questa già appariva impoverita per rilevanti e frequenti movimenti di espatrio. E anzi probabile che tali movimenti abbiano avuto da noi origini e sviluppi più antichi che non in altre parti d’Italia, attesi:

    • a) la scarsa richiesta di lavoro in un paese povero di capitali e dedito quasi esclusivamente ad una abitudinaria agricoltura;
    • b) la tenue produttività di alcune province;
    • c) l’allettamento esercitato da prosperi Stati confinanti. Per di più, la diversa densità demografica che si osservava da regione a regione e le diseguaglianze esistenti nella fisionomia economica delle varie parti dello Stato sabaudo, non potevano mancare di attivare tra di esse correnti spontanee e continue di periodiche migrazioni interne. Diffusa un po’ dovunque, la pratica dell’emigrazione diventava in alcune zone, massime in montagna, un coefficiente fondamentale della vita economica.

    Stagnaio ambulante (« magnin ») al lavoro.

    R. Blanchard è riuscito a mettere insieme alcune notizie, da cui risulta che, a cavallo tra il secolo XIV e XV, non poca gente abbandonava temporaneamente o definitivamente le alte valli della Dora Riparia e del Chisone. L’unità politica col Delfinato non impediva a questa gente di riversarsi in massima parte sul sottostante Piemonte. Così, per es., delle 16 famiglie che tra il 1397 e il 1432 hanno lasciato Exilles, 1 è scomparsa senza tracce, 3 si sono stabilite in Provenza e 12 a Chio-monte, Susa, Avigliana e altre località del Piemonte. Per ovvie ragioni, inerenti soprattutto all’inerzia cui gli abitatori delle nostre montagne sono costretti dalla neve per 3-5 mesi all’anno, l’emigrazione dovette alleggerire anche in sèguito la pressione demografica, sempre rinnovantesi ed incombente sulle Alpi piemontesi, ma con differente intensità nel tempo. Così, quando si può fare affidamento sulle prime statistiche — e cioè nel 1734 — ci si accorge che la quasi totalità degli esodi permanenti dalle terre piemontesi è data da paesi di pianura. Ovunque, però, ma specialmente in montagna, sull’emigrazione definitiva prevaleva di gran lunga la temporanea, che assumeva da luogo a luogo fisionomia spiccatamente diversa.

    Relativamente modeste erano le aliquote di contadini delle province meridionali del Piemonte che si recavano in Francia per il taglio dei fieni, in Liguria per la raccolta delle olive, e persino in Corsica, per lavori vari. Assai più rilevante era lo spopolamento periodico in Valle d’Aosta, dove, per consuetudine assai antica, quasi tutti gli uomini validi si assentavano almeno sei mesi all’anno per guadagnare la vita e fare qualche risparmio. Nel 1787 solo 21 comunità della Valle d’Aosta su 72 non denunciavano emigranti fuori dello Stato. Su un totale di 69.689 anime, 2602 (1613 maschi e 989 femmine) erano censite come permanentemente assenti. Specializzate si potrebbero chiamare le correnti migratorie che partivano da alcune valli, come quelle del Biellese e della Valsesia. Muratori, fornaciai, scalpellini, pavimentatori, carpentieri, lasciavano in buon numero ogni anno, per 8-9 mesi, i propri casolari delle montagne e delle colline biellesi, sparpagliandosi all’interno dello Stato sabaudo e anche all’estero, in località dove più costante era la richiesta di lavoro. Prevalentemente rivolto all’estero era invece il flusso migratorio, costituito da muratori, scalpellini, lattonieri, ecc., della Valsesia.

    In val dell’Orco e ancora vivo l’antico artigianato dei calderai.


    Dalla provincia di Susa scendevano sullo scorcio dell’autunno numerose squadre di cardatori di canapa e di lana, che si spingevano talora anche assai lontano, in terra d’Italia e di Francia. Tale mestiere era meno intensamente praticato nelle altre valli e quindi non dava luogo ad un esodo così esteso. Ad altre categorie professionali appartenevano i numerosi emigranti dell’alto Novarese, di Altare (vetrai), della valle dell’Orco (stagnai e venditori di chincaglierie), di Brosso (« reseghini »). Poco onorifica e tema obbligato di facile commozione era l’emigrazione dalla Valle d’Aosta di spazzacamini, lustrascarpe e suonatori di organetto.

    Passando d’un balzo da quelle prime statistiche, alle statistiche e ai censimenti dell’Italia unita, si nota facilmente come, conquistato alla coltura il terreno conquistabile, dato sviluppo alle reti delle strade e delle ferrovie, dal Piemonte sia uscito negli ultimi decenni del secolo scorso, un denso flusso di operai e di contadini. Il contatto con la Savoia, la prossimità della Costa Azzurra — quando la nostra riviera ligure doveva ancora scoprire i forti redditi delle colture floreali e del turismo — la vicinanza di Genova, dove approdavano e partivano navi in ogni direzione, favorirono l’esodo di circa 30.000 piemontesi all’anno (media 1876-86). Il Piemonte divideva allora con il Veneto — altra regione abbondante di montagne e frequente di contatti con l’oltralpe — il primato quanto a numero assoluto di emigranti, e mandava la grandissima maggioranza dei suoi figli nei paesi europei (Francia, Svizzera, Austria, Germania).

    Verso la fine del secolo XIX, mentre la media annua degli emigranti rimaneva pressoché invariata sui 30.000, avvenne un deciso mutamento di rotta, che portò poco meno della metà degli emigranti stessi oltre oceano, soprattutto in Argentina. Contemporaneamente la Campania si aggiungeva al Veneto nel precedere il Piemonte per numero medio annuo di espatrii. Il primo quindicennio del secolo XX vide il Piemonte partecipare con masse crescenti di suoi figli al più spettacoloso esodo di uomini che nella sua lunga storia l’Italia ricordi. Dal 1905 al 1913 lasciarono il Piemonte in media all’anno 63.600 persone, con una punta massima di 78.663 nel 1913. In questo periodo, mentre gli espatrii verso il continente riassumevano la netta predominanza, anche la Sicilia veniva, con il Veneto e la Campania, a superare il Piemonte nel numero assoluto degli emigranti. Durante la prima guerra mondiale (1914-1918), l’emigrazione dal Piemonte si contrasse ad una cifra annua di 24.710 espatrii, cifra che ridette momentaneamente al Piemonte, col maggior sviluppo dell’emigrazione nel continente, il primato nella partecipazione all’efflusso nazionale. Seguì dal 1919 al 1927 un periodo di forte ripresa con una media annua di 47.830 emigranti (massimo di 60.530 nel 1920). Questa ripresa coincise con una netta caduta degli espatrii oltre oceano, che si ridussero in quel periodo a poco più di 9000 in media all’anno. Le valide braccia dei Piemontesi erano allora chiamate a risollevare l’Europa dalle terribili distruzioni della guerra.

    Le restrizioni poste dalla politica fascista al movimento migratorio ebbero le loro ripercussioni anche in Piemonte, limitando a una media annua di 30.310 (dodicennio 1928-39) gli espatriati dal Piemonte. Di tale migrazione continua a beneficiare sempre di più l’Europa, mentre le partenze per l’oltremare, ulteriormente cadute a 2790 (media del periodo ora citato), s’indirizzano massimamente agli Stati Uniti e all’Etiopia. Dopo la seconda guerra mondiale, la situazione dell’emigrazione piemontese, continentale e transoceanica, appare totalmente diversa da quella delle origini, non tanto per i paesi di destinazione, tra i quali predominano la Francia, la Svizzera, la Germania, il Belgio, l’Argentina, il Venezuela, quanto per lo scarso numero degli espatrii di lavoratori, ridotti a poche migliaia. Il Piemonte, che veniva un tempo al primo posto quanto a numero di emigranti, ora viene agli ultimi posti, se non all’ultimo. Non solo, ma da diversi anni il movimento risulta addirittura invertito, nel senso che i rimpatrii superano gli espatrii. L’America sembra ora essere il Piemonte! Così, per fare un esempio, nel 1956 di fronte a 2013 espatrii per lavoro o su chiamata, si sono avuti 2846 rimpatrii in assoluta prevalenza dal continente. Nel 1953 gli emigranti partiti furono 2928: quelli rientrati 5915. E la tendenza non mostra soste o rallentamenti.

    Non diversamente da quel che avveniva una volta, anche nei tempi più vicini a noi l’emigrazione non si è manifestata con uguale intensità in tutte le parti del Piemonte. Le province più montuose e cioè quelle di Torino, Cuneo, Novara, continuarono e continuano a dare il massimo apporto al movimento di esodo verso l’estero. Non vi è bisogno di analizzare le note caratteristiche della vita, soprattutto economica, delle nostre vallate alpine per capire le ragioni di questo più facile loro abbandono. Il quale, per altro, ha ritmo prevalentemente temporaneo, come mostra la frequenza dei rimpatrii, mentre la provincia di Alessandria si distingue per il numero degli espatrii transoceanici che sono ben sovente permanenti. Ora, gli emigranti continentali sono di gran lunga più numerosi: lavoratori non agricoli, con predominanza di muratori e di camerieri. Tra gli emigranti transoceanici gli agricoltori rappresentano un terzo circa; gli altri sono in buona parte meccanici, muratori, calzolai e sarti.

    Se non ci fosse il pericolo di indulgere alla retorica, metterebbe conto di celebrare i sacrifici, le lagrime, il sangue che fremono e ribollono dietro le nude testimonianze statistiche dell’emigrazione piemontese. Basterebbe ricordare che se il lasciar la casa paterna a scopo di espatrio è sempre doloroso per tutti, lo è in special modo per il montanaro, attaccato alla sua terra in ragione delle maggiori fatiche ch’essa gli richiede. Come sarebbe facile scorrere le pagine veramente epiche scritte da migliaia e migliaia di piemontesi, col loro lavoro, col loro ingegno, con la loro accorta tenacia, in tutti i paesi del mondo! Si pensi soltanto, per fare un esempio, ai missionari, agli agricoltori, agli artigiani, agli esploratori che dal natio Piemonte nel secolo scorso si volsero all’Africa: dall’astigiano P. Giovanni Stella, il colonizzatore dello Sciotel, ad un altro religioso astigiano, il cappuccino, poi cardinale Guglielmo Massaia, la cui opera è così strettamente collegata alla storia dell’espansione italiana nell’Africa orientale; dai canavesani fratelli Naretti, che alla corte d’Etiopia mostrarono la loro bravura di artigiani e il loro indomabile spirito di italianità e dal vercellese Augusto Franzoi, giornalista e negoziatore abilissimo, al novarese Ugo Ferrandi, il difensore di Lugh, e al torinese capitano Enrico Baudi di Vesme, l’esploratore di tanta parte della Somalia.

    Ma se i nomi e l’opera di questi e di altri pionieri sono consacrati alla storia, nella geografìa, e cioè nella fisionomia di intere, vaste zone della superficie terrestre, sono incisi i risultati dell’intelligente fatica di masse di Piemontesi. Più che i nomi di borghi e di città che in California ripetono i nomi di borghi e di città del Piemonte, gli immensi vigneti dicono della colonizzazione ivi effettuata da famiglie di agricoltori astigiani, cui si devono i primi sviluppi di quella viticoltura. Certi aspetti del paesaggio monferrino ritornano sui colli di Caxias do Sul e di San Roques, in Brasile, dove la vite è stata lo strumento primo della trasformazione di quei luoghi desolati, in senso, si potrebbe dire, piemontese. Numerosi Piemontesi hanno lavorato a creare le basi tecniche per lo sfruttamento minerario del Congo Belga, e chi va nella Costa d’Oro o in Nigeria trova la costruzione di strade, di ponti, di ferrovie affidata ad impresari, a capomastri, a muratori biellesi. Ma anche alle porte di casa è facile incontrare «angoli» piemontesi all’estero: così nella Provenza, nella Lingua-doca, nella Garonna, dove si succedono le proprietà agricole di Piemontesi: così in certi sobborghi di Parigi e in centri minori della Francia, in cui vivono prospere, laboriose colonie di valdostani, di valsesiani, di cuneesi.

    Vigneti della « Cinzano » a San Roques (S. Paolo), Paesaggio monferrino trapiantato in Brasile,

    Lo spopolamento montano e le correnti migratorie da provincia a provincia

    Tra i fenomeni migratori che caratterizzano la fisionomia demografica del Piemonte, lo spopolamento montano è quello che ha maggiormente colpito in questi ultimi decenni non solo la fantasia del gran pubblico, ma anche la preoccupata attenzione delle gerarchie politiche, di enti economici ed amministrativi, di singoli studiosi, dando luogo più ad una ricchissima bibliografia che non ad efficaci, diretti interventi. Si sono gettati da più parti gridi di allarme, cui hanno risposto affrettati, drammatici esami della situazione, come se si trattasse di un fenomeno sconosciuto ed improvviso, simile alla piena di un torrente che d’un colpo rompe gli argini e straripa, cogliendo la gente nel sonno. In realtà la montagna piemontese si spopola, e si ripopola, da secoli: si carica cioè di uomini fino al momento in cui il mai cessato efflusso assume più massicce, evidenti proporzioni, per poi tornare a rinsanguarsi, e così di sèguito, con andamento ciclico.

    Già s’è accennato, per esempio, alla vera emorragia d’uomini, da cui risultarono colpite, verso la fine del Medio Evo, le alte valli della Dora Riparia e del Chisone. Verso la metà del secolo XVIII la montagna piemontese, con le sue 203.000 anime censite nel 1734 — il che fa 37 ab. per kmq. — appare in fase di sovrapopolamento. Ne conseguono un ingrossarsi del flusso migratorio e, nel periodo della rivoluzione francese e dell’Impero napoleonico, una diminuzione della popolazione che impressionano al punto da provocare una inchiesta, condotta da diversi economisti del tempo, e parecchi interventi del governo sabaudo. Verso il 1820 le nostre vallate figurano in piena ripresa demografica, ripresa che tocca il culmine verso il 1848. Il censimento di quell’anno assegna di fatto alle Alpi piemontesi un patrimonio umano di 340.000 individui. Da allora le alte valli perdono abitanti, prima lentamente, fino al 1911, e poi con rapidissima, forte discesa. Le basse valli guadagnano abitanti fino al 1871, poi il loro carico umano si mantiene stazionario fino al 1911, anno in cui comincia esso pure a declinare, ma meno precipitosamente che nelle alte valli.

    Per comprendere questo diverso comportamento è necessario tener presenti i due aspetti fondamentali dello spopolamento montano: i° l’abbandono delle regioni più elevate per quelle sottostanti entro l’area della montagna; 2° l’abbandono dell’area della montagna per altri paesi e specialmente per la pianura subalpina. Si potrebbe così parlare di uno spopolamento altitudinale e di uno spopolamento integrale. Il primo non porterebbe a una diminuzione complessiva della popolazione montanara. Questo aspetto dello spopolamento della montagna era già stato chiaramente individuato ai primi anni del nostro secolo dal Prato, che contrapponeva l’aumento di abitanti dei grossi borghi esistenti nelle parti più basse o allo sbocco delle valli, alla diminuzione constatabile nei luoghi di suolo più sterile o di comunicazioni meno agevoli.

    Altra importanza riveste l’abbandono integrale della montagna. Ad esso, e cioè praticamente ad un intensificarsi dell’emigrazione definitiva, si debbono i vuoti recentemente creatisi nel patrimonio demografico delle Alpi piemontesi. Senza tuttavia dimenticare che, allo stesso fine, ha concorso un effettivo sensibile calo del tasso di natalità, che, dal 32,4‰ nel periodo 1889-1900, è sceso all’11‰ in questi ultimi anni. Comunque, dal 1848 al 1951 — anno in cui erano censiti nelle montagne piemontesi 260.000 ab. — le montagne stesse hanno perduto quasi un quarto della loro popolazione. Naturalmente vi sono anche qui dei massimi e dei minimi. Alcuni Comuni, come Sambuco e Sauze di Cesana, hanno perduto più dell’80% dei loro effettivi umani. Intere zone vallive, come quelle dell’alto Po, sono state abbandonate da più del 70% dei loro abitanti. L’alta valle Varaita ha veduto partire il 50% dei suoi figli. Le alte valli della Dora Riparia e del Chisone hanno subito una diminuzione del 41-42%. Le regioni elevate meno colpite dallo spopolamento sono quelle della valle dell’Orco e della vai Germanasca con perdite dal 37 al 38%. Meno profondi i vuoti aperti dallo spopolamento nelle zone più basse della montagna: da diminuzioni del 5,5% in vai Pellice e del 6,4% in vai Germanasca, si passa ad aliquote del 12-17% nelle valli dall’Orco al Po, e a massimi del 46,5 in vai Sesia e del 52,6% in vai Grana. Ma in singoli Comuni, come Gravere e Castelnuovo Nigra, lo spopolamento ha superato addirittura il 60%.

    Quali le cause di un così grave impoverimento demografico delle Alpi piemontesi? Donde un impoverimento superiore a quello stesso del versante francese e che non ha confronti in altre parti della montagna italiana? In tesi generale ha ancora oggi ragione il Porri che nell’ormai lontano 1928 scriveva: «La montagna piemontese si spopola per il desiderio di una vita meno dura, di non abitare nelle stalle mesi e mesi durante l’inverno, di non essere bloccati dalla neve lunghe settimane ». Ma da noi l’abbandono della montagna ha assunto una particolare importanza per un complesso di circostanze che dovevano agire nello stesso senso, e cioè appunto favorendo un crescente spopolamento.

    Durante i cento anni che vanno dalla metà del secolo XVIII alla metà del secolo XIX, sotto la spinta di un maggior numero di figli da mantenere, gli abitanti delle Alpi piemontesi s’industriano di strappare sempre nuovi pezzi di terra coltivabile ai ripidi pendii, alle falde di detrito, ai terrazzi più alti e più esposti. A quel periodo risalgono i campicelli di segale, di grano saraceno, di patate, che oltrepassano i 2000 m. di altitudine: le imponenti « masere » che, in più ordini, sostengono come gradinate di giganti, prati e coltivi; la fitta rete di sentieri e di mulattiere che lega casolare a casolare, valle a valle. Ed era quello della montagna un mondo chiuso in sè, un’unità economica autosufficiente, da cui, con improba fatica, lavorando la pietrosa terra e dedicandosi all’allevamento del bestiame, il montanaro traeva quasi tutto il necessario al suo parco sostentamento.

    Nel cuore di questo vecchio mondo abitudinario, affollato di uomini ormai stanchi per aver esaurito tutti i tentativi diretti ad accrescere le risorse locali, si aprirono un giorno, dal basso, la strada e la ferrovia. Fu veramente come se al troppo pieno di un bacino idrico, fosse aperto un comodo varco attraverso la diga di ritenuta. Ed ecco, per il varco della strada e della ferrovia, le genti di quel grande serbatoio di uomini che è sempre stato la montagna, scendere a valle alla ricerca di una vita meno misera, di un lavoro meglio rimunerato, più continuativo, di un avvenire meno incerto, alla ricerca insomma di quel conforto spirituale e materiale, che pur tra le illusioni e le delusioni, la civiltà innegabilmente porta con sè.

    Per qualche tempo, la discesa si arrestò al fondo e allo sbocco delle valli, e cioè in terre nelle quali si verificava un qualche progresso industriale, o l’attivarsi di commerci, o la richiesta di determinati prodotti agricoli. Poi intervenne un fatto nuovo, e cioè l’industrializzazione di Torino e di altri centri della pianura come Vercelli, Novara, Chieri, Pinerolo, ecc. Lo sviluppo industriale risalì alcune tra le maggiori vallate, come le valli pinerolesi, la bassa vai di Susa, la valle d’Aosta, la bassa e media Valsesia, la vai d’Ossola, e il sorgere di fabbriche sul fondo di tali valli valse a raffrenare localmente la fuga dalla montagna. Ma poi la fuga riprese e s’ingrossò, alimentata soprattutto dalle vallate, più frequenti nelle Alpi Cozie e Marittime, che l’attività industriale quasi non aveva toccato. Non per nulla il periodo di più intenso e rapido spopolamento montano comincia proprio quando l’utilizzazione della forza idroelettrica, fornita dalla montagna, dà l’avvio ad un processo di accelerata, imponente espansione delle industrie nella pianura sottostante. Si potrebbe dire che in tal modo, la montagna medesima, cedendo l’energia delle sue acque alla pianura, ha contribuito a richiamarvi pure l’energia dei suoi uomini.

    Case in rovina a Traversala (val Chiusella).

    Come è noto, lo spopolamento montano ha sollevato una quantità di recriminazioni, di lamenti accorati, di apocalittiche previsioni, di pressanti appelli ai pubblici poteri perchè intervenissero con opportuni provvedimenti a salvare la languente capacità demografica e l’anemizzata economia delle montagne piemontesi. Medici più o meno illustri di ogni scuola si sono susseguiti al capezzale della grande ammalata. Ed anche oggi non manca chi si preoccupa affannosamente di studiare e di proporre rimedi su rimedi per tamponare la temuta emorragia. La realtà è molto meno drammatica di quel che generalmente non si creda.

    Un intero villaggio abbandonato (Lo Cré presso Avise, in valle d’Aosta).

    Certo, dal punto di vista geografico, essa si stampa sul paesaggio con segni anche largamente manifesti ed impressionanti. Villaggi un tempo abitati tutto l’anno ed ora ridotti ad alpeggi temporanei: interi centri quasi deserti tra le cui viuzze s’aggirano come ombre i pochi vecchi intestarditisi a rimanere; baite e case d’abitazione, vuote, crollanti; campicelli e vigneti abbandonati, sui quali ritorna il bosco, un tempo cacciatone; aridi pascoli su cui ricrescono cespugli ed erbacce; muretti a secco slabbrati e cadenti; sentieri e mulattiere che acque non raffrenate mano a mano sbocconcellano; mulini fatti silenziosi. Sono spettacoli fin troppo frequenti in certe zone delle Alpi piemontesi e nelle stesse maggiori vallate. Chi non avesse dimestichezza con la montagna e volesse rendersene ugualmente conto non avrebbe che da sfogliare i documentatissimi due primi volumi della monumentale inchiesta « Lo spopolamento montano in Italia», pubblicati nel 1932.

    Ed è pure certo che visioni del genere suscitano, anche nello spirito meno sensibile, impressioni di sconforto, di tristezza, di rimpianto. Ma con questo ? Tali esempi di abbandono sono, è vero, sintomi di una crisi, ma quante crisi non sono benefiche ? Scriveva già diversi anni or sono M. Spanna, un acuto studioso valsesiano dello spopolamento alpino: «Se il montanaro ha abbandonato i suoi vecchi strumenti di lavoro è segno evidente che ne ha trovato dei migliori. Se egli non si accanirà più contro la terra misera ed avara, è segno ch’egli ha trovato modo di vivere meglio, con minor rischio e con minor fatica. Perchè rimpiangere l’antico lume ad olio quando esiste la luce elettrica ? Perchè rimpiangere la generazione di caprai e di pastori che va scomparendo, mentre ne sta ora sorgendo in sua vece, una di studenti, di alpinisti, di sciatori, di villeggianti ? ».

    La crisi della montagna tende, come vedremo, ad un più naturale equilibrio produttivo, rotto appunto dall’eccessivo carico umano. Vedremo pure come, in certe zone, sia già avviata la trasformazione che dovrà dare un più razionale assetto alla economia delle montagne piemontesi. Qui si noterà soltanto che la redditività crescente del lavoro industriale o commerciale in pianura, e le maggiori agevolezze di vita ch’essa consente, hanno acuito, e quasi esacerbato, i contrasti già esistenti tra i frutti di questo lavoro e lo scarso, sudatissimo reddito della fatica in montagna. Quand’è così, non è forse meglio abbandonare la casa, cercare fortuna altrove, e scendere al piano, tanto più ch’esso manifesta un crescente bisogno di braccia per le sue industrie? In tal modo la mobilità dei fattori produttivi spinge fatalmente a una ridistribuzione delle forze lavoratrici. Nè si dimentichi che, secondo il parere degli economisti, lo spostamento di popolazione da un luogo all’altro in armonia con i nuovi bisogni della vita moderna, permette di produrre, con uguale massa di popolazione, un lavoro e quindi un rendimento maggiore, che va a beneficio della collettività.


    La dura fatica del montanaro.

    Il fatto si è che in Piemonte, non si spopola soltanto la montagna, ma anche la collina, e larga parte della stessa pianura. Gli ultimi censimenti hanno, in realtà, confermato essere in atto, da qualche tempo a questa parte, un processo di differenziazione demografica per cui un gruppo di province a popolazione crescente — Vercelli, Novara, Milano — si stacca sempre più nettamente da un altro gruppo — Asti, Alessandria e Cuneo — a popolazione in via di diminuzione. La provincia di Vercelli dal 1901 al 1951 ha guadagnato 11.000 ab., con un aumento percentuale del 2,9%. La provincia di Novara ha guadagnato 50.000 ab., con un aumento del 13,4%. La provincia di Torino s’è arricchita di ben 404.000 ab., accrescendo la sua popolazione del 38,7%. Al contrario, la provincia di Asti ha segnato 56.000 persone in meno, con una diminuzione del 20% ; Alessandria si è smagrita di 46.000 persone, con una diminuzione dell’8,6%, e la provincia di Cuneo, infine, ha perduto 55.000 persone, con un calo del 18,6%.

    Ora, siccome ambedue i gruppi di province presentano indici di natalità e una eccedenza di vivi sui morti press’a poco uguali, è evidente che le differenze sopra accennate devono derivare da correnti migratorie. Ed effettivamente si osserva all’interno del Piemonte tutto un interessante movimento di ridistribuzione demografica, che non si sviluppa soltanto da provincia a provincia, ma anche da zona a zona di una stessa provincia, e da altre regioni d’Italia. Quanto alle cause di tale movimento non è difficile individuarle, considerando che ai due gruppi di province corrispondono, da una parte quelle a diffusa economia industriale e dall’altra quelle ad economia agricola. Si tratta, in effetti, di un vasto sfollamento delle campagne, diretto verso centri e zone in cui si espande l’attività industriale. La controprova si ha nella constatazione che dal 1936 al 1951, e cioè in quindici anni, la popolazione rurale del Piemonte è diminuita del 9,2%, passando dal 42,3% sul totale, al 32,6%.

    Si possono dunque distinguere province di immigrazione e province di emigrazione. Ma si diceva poco sopra di differenze da zona a zona nell’ambito della stessa provincia. Così in quella di Vercelli, la collina biellese, col suo pullulare di stabilimenti lanieri, è un attivo richiamo di mano d’opera che emigra stabilmente industrializzandosi, mentre nella pianura vercellese il richiamo, costituito dai lavori per la monda del riso, è stagionale, e mentre ancora nella Valsesia, scarsa com’è di risorse agricole, quasi priva di artigianato, e con attrezzatura turistica piuttosto modesta, si continua ad emigrare.

    L’assai più vigoroso sviluppo industriale del Novarese ha consentito e consente un maggior assorbimento di emigrati rurali. Interi treni di vercellesi si riversano ogni giorno nella vicina provincia per distribuirsi, insieme ai lavoratori locali, nelle sue numerose fabbriche. Una particolare attenzione merita, tra le province di immigrazione, quella di Torino. Ne parleremo tra poco. Delle province di emigrazione, quella di Cuneo, astraendo dalle decadenti condizioni generali dell’economia montana, ha veduto ancora assottigliarsi i redditi agricoli dall’ormai cronica crisi dell’allevamento del baco da seta, dalla diminuita raccolta delle castagne, mentre si è ridotto, nell’industria del tannino, l’impiego del castagno. L’esodo rurale non interessa solo la montagna cuneese, ma intacca anche, e gravemente, il patrimonio umano delle Langhe, specialmente delle alte Langhe, che già conosciamo per la complessiva povertà dei terreni, per la diffusa boscosità, per la diffìcile coltura della vite, per l’isolamento rispetto ai centri di qualche importanza. Non per nulla le Langhe rientrano, a tutti gli effetti di legge, fra le aree considerate depresse. Ivi la decadenza dell’agricoltura è in particolar modo testimoniata dalla facilità con cui i ben ordinati vigneti vengono abbandonati o sostituiti, nel migliore dei casi, da piantamenti di noccioli.

    Ma dove lo sfollamento collinare tocca la punta massima è nell’Alessandrino e nell’Astigiano. L’emigrazione rurale che parte dalle colline tortonesi, dalla vai Bormida, dal Monferrato, si orienta in gran parte verso Milano, Torino e Genova, come vuole, si potrebbe dire, la posizione geografica. Questo esodo ha le sue cause specifiche nella difficile situazione in cui versa ormai da tempo la viticoltura, che è la principale attività agricola di quelle colline, come di quelle della provincia di Asti.

    Se ora ci si chiede se veramente sia l’industria la nuova attività verso cui si dirige tanta parte della popolazione agricola del Piemonte che abbandona le natie campagne, bisognerebbe anche qui fare delle distinzioni, per concludere, forse, che non tanto l’industria in sè e per sè, quanto la vita cittadina in genere attira, come potente calamita, i ceti rurali delle zone meno fortunate del Piemonte. L’esempio di Torino è il più vistoso. Da una recente inchiesta condotta dal Servizio Lavoro e Statistica del Municipio di Torino risulta che dal 1951 al 1956 Roma ha ricevuto 119.749 immigrati, Milano 84.254, Genova 45.416, Palermo 26.696, Napoli 8757 e Torino 155.603. Questo primato della capitale piemontese per numero di immigrati, acquista le sue vere proporzioni se si rapporta tale numero alle migliaia di abitanti. Appare così che l’incremento migratorio di Torino è oltre 24 volte superiore a quello di Napoli, e di 3 o 4 volte all’incirca superiore a quello delle altre città.

    Contrariamente a quanto molti credono, non i meridionali, ma i Piemontesi costituiscono l’aliquota prevalente degli immigrati in Torino. Dal luglio 1956 al giugno *957 i Piemontesi immigrati in Torino furono 18.184 contro 12.751 provenienti dall’Italia meridionale. Tra le località del Piemonte che forniscono un maggior numero di nuove braccia a Torino stanno in prima fila i 23 Comuni viciniori, inclusi nel Piano regolatore comunale, che danno da soli una massa di immigrati corrispondente a quella di tutti i restanti 290 Comuni della provincia. Per altro si può osservare che la zona più vicina a Torino assorbe anche il maggior numero di gente che lascia la grande città. Accanto alla immigrazione stabile ha assunto proporzioni ragguardevoli anche il fenomeno dell’immigrazione giornaliera, che porta a far la spola tra i propri paesi e le fabbriche torinesi circa 60.000 lavoratori, provenienti non solo dai Comuni adiacenti, ma anche dall’Astigiano, dal Biellese, dal Vercellese, dalla valle d’Aosta.

    Che la maggior parte degli immigrati d’ogni provenienza finisca per ingrossare soprattutto le file degli abitanti dei centri di maggior sviluppo industriale, è cosa fuori dubbio. Dal 1901 al 1951 Novara è passata da 44.249 a 69.395 abitanti; Vercelli da 30.474 a 42.155; Biella da 25.917 a 42.791; Torino, infine, da 335.556 a 721.295. Ma anche i centri urbani delle province agricole, emigratorie, con popolazione in diminuzione, sono nel contempo cresciuti di abitanti, grazie all’apporto di rurali delle campagne della provincia stessa. Così si spiega come Alessandria sia cresciuta dai 70.624 ab. del 1901 agli 82.137 del 1951; Casale Monferrato sia passato nello stesso numero di anni, da 31.170 ab. a 37.415; Asti, da 44.533 a 52.000. Cuneo, di cui è nota la scarsa attività industriale, è pure aumentata da 26.879 a 39-870 ab., con un balzo considerevole.

    Tornando, per un momento ancora, a Torino è da rilevare come la cerchia dei luoghi d’origine dei suoi immigrati sorpassi di gran lunga i confini della regione, per allargarsi a tutta l’Italia. Sempre dalla indagine comunale ora ricordata si ricava che, di fronte ai 18.484 immigrati dal Piemonte, fanno più che discreta figura i 12.130 provenienti dall’Italia settentrionale (Piemonte escluso), i 12.251 dell’Italia meridionale, i 4691 delle isole, i 1941 dell’Italia centrale, che vengono a cercare un’occupazione nella capitale subalpina. E umano che le differenze somatiche e psicologiche tra gente di razza alpina, o padano-adriatica, e mediterranei conferiscano alla presenza di questi ultimi un risalto superiore alla loro reale consistenza numerica. E questo anche perchè, almeno inizialmente, i meridionali formano di preferenza dei gruppi a sè stanti, con propria distinzione all’interno della città. Così, per fare un esempio, siciliani e sardi preferiscono prender stanza nella zona del Municipio e in quella di Piazza Carlo Felice.

    Accanto e in dipendenza dei fenomeni di vero e proprio urbanesimo, anche quelli di spopolamento delle campagne s’accompagnano a correnti migratorie che oltrepassano i limiti del Piemonte. In realtà, ben maggiori apparirebbero i vuoti aperti nella compagine demografica delle campagne dall’inurbamento se il posto lasciato dagli elementi locali non venisse quasi sempre occupato da immigrati. Si tratta per lo più di Veneti. Il varco all’immigrazione veneta è stato veramente aperto dall’industria torinese nel primo dopoguerra (Snia Viscosa). Poi il flusso non si è arrestato più. E oltre che industriale è diventato agricolo, appunto quando le campagne piemontesi hanno cominciato ad essere disertate dai loro antichi coltivatori. Questo processo di sostituzione è particolarmente avanzato e manifesto nelle regioni collinari delle province di Asti e di Alessandria o nella collina di Torino.

    L’esempio di ciò che è avvenuto in due paesi basterà a lumeggiare lo stato di molti e molti altri. A Montiglio, Comune di 2330 ab., sito a 22 km. da Asti, dal 1946 al 1955, 1399 persone del luogo hanno lasciato le loro ridenti colline per stabilirsi in centri maggiori, quali Torino, Milano, Alessandria, Asti, Mondovì, ma anche minori come Saluzzo, Settimo Torinese, Lanzo, Rivoli, Collegno, Pianezza, Caselle Torinese, Chivasso, Cavagnolo, Gassino, Nizza Monferrato, San Maurizio Canavese. La frequenza dei borghi industriali vicini a Torino denota come essi funzionino per lo più da tappe nella marcia di avvicinamento alla grande città. Nello stesso periodo ben 1573 immigrati, quasi tutti Veneti ed in gran parte braccianti, sono venuti a fissarsi a Montiglio per lavorare i campi: in un primo tempo come mezzadri, e successivamente come fittavoli. Comuni d’origine dei nuovi montigliesi Vedelaga, Istrana, Camisano Vicentino, e altri Comuni del Vicentino, del Trevisano, del Padovano.

    A Quargnento, centro rurale fra la collina e la pianura di Alessandria, il rimescolamento è più antico, e ha portato ad una situazione per cui, di fronte alle 1000-1200 unità della popolazione autoctona, si contano oggi 800 veneti. Ma questo grosso nucleo di popolazione veneta, prevalentemente costituito di salariati fissi, appare invece, ironia delle parole, quanto mai instabile e fluttuante, e considera l’occupazione agricola come un male necessario per arrivare a quella industria che rappresenta quasi sempre l’ultima, agognata meta. Nei centri agricoli della collina di Torino, data la maggior vicinanza del grande agglomerato industriale, il ritmo di sostituzione è più celere, e quindi il panorama demografico-regionale, chiamiamolo così, è più vario. A rimpiazzare le prime famiglie locali trasferitesi a Torino, sono venuti piccoli proprietari dal Monferrato e dalle Langhe. In un secondo tempo, crescendo l’esodo verso la città, il posto dei fortunati neocittadini è stato preso in prevalenza da Veneti. In un terzo tempo, anche i Veneti avendo trovato da sistemarsi in città, sono subentrati elementi meridionali, soprattutto Calabresi e Siciliani. Ma, salvo poche eccezioni, tutti sono in attesa di compiere l’ultimo balzo, che li porterà ad inurbarsi. Pure extra-regionale, ma a sfondo immediatamente industriale, è l’emigrazione che fornisce alla Cogne, ed altre grandi fabbriche, agli importanti lavori idroelettrici della valle d’Aosta, l’energia di migliaia e migliaia di Calabresi.

    Tutto il Piemonte è dunque come agitato, come percorso da una quantità di rivoli e rivoletti umani che ne escono, che vi entrano, rimuovendo i vecchi strati della popolazione, rarefacendoli, e depositando nuovi sedimenti. Diverse le zone di partenza e di arrivo : diversi anche i ritmi di sviluppo. Così, per esempio, nelle zone collinari, il distacco dei contadini del luogo dalla loro terra, ha quasi il carattere di una fuga, l’andamento di uno stillicidio: si fa come di nascosto, alla spicciolata. Per contro, l’arrivo dei Veneti avviene generalmente per grossi nuclei, a più famiglie riunite. E si sa che si tratta di famiglie numerose.

    Questo rimestio di genti è l’espressione, in campo demografico, di un più vasto e complesso lavorio di trasformazione che investe molti altri settori della vita del Piemonte. E certo, nell’interesse del Piemonte stesso, sembra opportuno che si arrivi al più presto possibile a considerare i fenomeni dell’esodo rurale e dell’inurbamento nel più vasto ambito delle prospettive che si aprono allo sviluppo economico della regione. Anche per l’importanza di questi rapporti, e soprattutto per le influenze che le fluttuazioni demografiche sin qui ricordate hanno sui più svariati aspetti del paesaggio, si è qui dedicato ad esse un non troppo breve sguardo. A sintetizzare la portata economica, sociale e geografica di tali fenomeni può essere suggestivo il pensare che, se non fosse intervenuta l’immigrazione, e cioè secondo il solo movimento naturale, la popolazione attuale di Torino sarebbe molto inferiore a quella del 1901! Umanamente parlando è da augurarsi che le tante sofferenze e i sacrifici individuali che accompagnano ogni sradicamento trovino il loro compenso in un più agevole assorbimento della mano d’opera e in un adeguato livello dei redditi di lavoro.

    La composizione della popolazione. Condizioni sociali e culturali.

    Farsi un’idea abbastanza precisa della composizione demografica del Piemonte anteriormente al secolo XIX, è impresa quasi impossibile, perchè le consegne, i « ricavi generali », i censimenti ignoravano del tutto le distinzioni per sesso e per età, che permetterebbero di scendere a qualche particolare nell’esame di quella composizione. Il censimento generale del 1734, riferendosi alle consegne del sale e alla « levata » dei soldati, consente tuttavia di notare che la proporzione dei bambini inferiori ai 5 anni saliva allora al 12%. Dai quaderni superstiti delle consegne del 1700-01 si può ricavare che tale rapporto superava di frequente e di rado rimaneva inferiore al 20%. Nel 1901 lo stesso rapporto era dell’i 1,8% e nel 1951 si calcola ammontasse all’8,0%. Siccome non si può ammettere che nel secolo XVIII la mortalità infantile fosse inferiore all’attuale (sappiamo anzi che doveva essere il contrario), il Prato ritiene doversi attribuire l’alta percentuale dei bambini inferiori ai 5 anni, all’interesse dei privati e delle comunità di mantenere in tale categoria, esente dall’imposta del sale, fanciulli che già avevano superato il limite di età.

    Ma anche riconoscendo fondata l’ipotesi del Prato, resta il fatto che non solo la popolazione infantile, ma anche quella giovanile è andata gradualmente scemando. Tenendo solo conto dei maschi in età da 13 a 18 anni, risulta che nel 1734 essi costituivano l’i 1,8% della popolazione del Piemonte; nel 1901 essi rappresentavano il 10,1%, nel 1921 il 5,2%, nel 1951 il 6,1%. Come si vede la diminuzione è tuttavia meno rapida e accentuata e tende anzi a ridursi. Le classi del gruppo fra 18 e 35 anni davano complessivamente nel 1734 il 24,7% della popolazione, nel 1901 il 24,8%, nel 1921 il 18,6%, nel 1951 il 25,9%. Dove è visibile, dopo il grande vuoto creato in quelle età dalla prima guerra mondiale, un attuale maggior concentramento, rispetto al passato vicino e lontano. Più forte ancora l’accentramento, che diviene preponderanza, della popolazione anziana, quale risulta dagli ultimi censimenti. Di fatto, gli individui dai 36 anni in su, che nel 1734 contavano per il 29,9% della popolazione totale, contavano per il 35,5% nel 1901, per il 40,4% nel 1921 e per il 54,6% nel 1951.

    Abbiamo cioè la conferma del processo di invecchiamento della popolazione che, pur risultando ormai esteso a tutta la popolazione italiana, nel suo complesso è più avanzato nell’Italia settentrionale e particolarmente in Piemonte. Già il Niceforo, in base ai dati del censimento del 1911, faceva notare come, mentre in Piemonte le persone in età da zero a 15 anni rappresentavano il 31,1% sul totale della popolazione, nel Veneto tale proporzione saliva al 38,5%, in Calabria al 36,3%, laddove il gruppo di età da 40 a 65 raccoglieva in Piemonte il 23,8% e nel Veneto il 20,1%. Con l’andare degli anni il distacco si è approfondito, perchè il censimento del 1951 attribuisce al gruppo di età da zero a 14 anni il 18,1% sul totale della popolazione piemontese, mentre tale gruppo nel Veneto costituisce il 25,8% e nella Calabria il 36,8%. E corrispondentemente, mentre in Piemonte gli individui in età dai 45 ai 65 anni, raggruppano il 26,5% della popolazione, nel Veneto si riducono al 21,3% e in Calabria non sono che il 14,9%. Siccome proprio in Piemonte, durante questi ultimi cinquantanni, si è verificata una delle massime riduzioni della natalità e della mortalità, così è naturale che qui da noi appaia essersi accentuato lo spostamento della quota maggiore della popolazione verso le età adulte.

    Troppo lontano ci porterebbe il procedere a confronti in questa materia tra provincia e provincia, ma non dev’essere anticipazione errata l’affermare che in breve giro d’anni si farà certamente sentire, nella composizione della popolazione delle varie province per gruppi di età, la più volte ricordata differenza tra province di immigrazione e altre di emigrazione. In effetti, nelle prime il flusso di nuovi venuti rappresenta per lo più un apporto di sangue giovane, mentre nelle seconde, la fuga degli elementi di buona età conferisce maggior importanza proporzionale alle classi di età avanzata.

    Quanto ai rapporti statistici fra i due sessi, questi non si allontanano dall’andamento normale per tutti i paesi caratterizzati da un’eccedenza maschile per i nati vivi, che poi scompare e lascia il posto ad un’eccedenza della popolazione femminile su quella maschile. Così in Piemonte, stando al censimento del 1951, si contavano allora 130.703 maschi in età fino a 6 anni, di fronte a 125.932 femmine. I due sessi si equilibravano, come numero, nella classe da 21 a 25 anni (112.683 maschi e 112.681 femmine). Poi il gentil sesso prende sempre più decisamente il sopravvento nelle classi da 55 anni in avanti, che raggruppano 368.411 maschi e 451.838 femmine. Anche qui, a non lunga scadenza, il moto migratorio, soprattutto dal Mezzogiorno, dovrebbe avere una qualche influenza e portare alla eliminazione della differenza numerica fra i due sessi ora ricordata. Per curiosità, possiamo ricordare come il censimento del 1734 rilevasse invece una lieve maggioranza (50,2%) dei maschi sulle femmine (49,8%), non uniforme, però, per tutte le province, nè comune a tutte le terre. Le donne eccedevano costantemente gli uomini nella massima parte delle città di qualche importanza. Il contrario avveniva per lo più nelle campagne, eccezion fatta per alcune regioni (esempio, Valle d’Aosta e Lomellina) a forte emigrazione.

    I fedeli alla montagna. Vecchia all’arcolaio in quel di Sauze d’Oulx.


    Circa la composizione quantitativa delle famiglie si constata nel tempo una non trascurabile diminuzione del numero medio dei componenti. Calcolato in 4,8 per fuoco (e cioè per famiglia) in base alle tabelle del 1750-55 (5,6 se si tiene conto dei minori di 5 anni, mancanti nel censimento) tale numero variava, però, notevolmente da luogo a luogo, oltre che da provincia a provincia. Stando alle tabelle su accennate non si può dire se le famiglie numerose fossero allora più frequenti nelle città o nelle campagne, nè risulta che fosse molto diffusa, come comunemente si crede, l’abitudine di vivere in forti aggregati familiari. Nel 1911 la media dei componenti la famiglia piemontese era scesa a 4,3 e nel 1951 era addirittura ridotta a 3,1, contro la media nazionale di 3,9. Le differenze attuali nella media dei familiari da provincia a provincia sono significative perchè fanno ancora riaffiorare i due volti del Piemonte: quello agricolo e quello industriale. Di fatto, mentre le province di Alessandria, di Asti e di Cuneo contano rispettivamente 3,2-3,3-3,6 membri per famiglia, le province di Novara, di Torino e di Vercelli ne annoverano di meno: rispettivamente 3,1 -2,9-2,9.

    L’antica consuetudine di avviare molto presto al lavoro i ragazzi porterebbe assai probabilmente a doversi ammettere per il Piemonte dei secoli XVIII e XIX una popolazione attiva proporzionalmente superiore a quella attuale, che era nel 1951 di 1.700.409 unità, con massimi nelle province di Vercelli (54,7%) e di Asti (49,2%) e minimi nelle province di Alessandria (45,4%) e di Cuneo (46,7), e nella regione autonoma di Aosta (46,4%). Sta il fatto che la popolazione attiva del Piemonte è diminuita dal 1936 (53,4% della popolazione totale) al 1951 (48,3%). La diminuzione dei censiti in età superiore ai 10 anni in possesso di un mestiere può interpretarsi come una conseguenza della diminuzione della popolazione rurale, in quanto la famiglia contadina è tutta impegnata nei lavori campestri, mentre nei nuclei familiari operai e impiegatizi viene risparmiato il lavoro ai bambini, ai vecchi, e molte volte anche alle donne. Questo ci porterebbe a vedere come sia composta la popolazione del Piemonte in ordine ai vari rami di attività economica in cui è occupata. Ma siccome la ripartizione degli abitanti per professione è un dato che concorre efficacemente a definire la fisionomia economica di una regione, così ne parleremo più avanti.

    Giova rifarsi ancora al Prato per trarne elementi di confronto fra le condizioni economiche della popolazione piemontese verso la metà del secolo XVIII e al giorno d’oggi. Naturalmente si tratta di approssimazioni, di accostamenti relativi che possono tuttavia servire a misurare il cammino percorso. Secondo calcoli dell’Einaudi sui primi del 1700 il reddito medio individuale per abitante sarebbe stato in Piemonte di lire 61,8. Il Prato calcola che cinquant’anni dopo tale reddito sarebbe salito a lire 72,7 per ab., con qualche differenza fra le vecchie province (lire 72,2 per ab.), e il Monferrato e le terre di nuovo acquisto (lire 74,10). Un reddito annuo di circa 25.000 lire attuali non può certamente essere considerato indizio di molto diffusa agiatezza.

    Come termine di paragone si pensi al reddito medio annuo prò capite, calcolato al 1958 a 360.170 lire: reddito appena inferiore a quello della Lombardia e della Liguria e ben superiore a quello della Puglia (lire 139.939 prò capite), della Basilicata (lire 114.485), della Calabria. Cifre come queste valgono più di un lungo discorso a rendere ragione dei movimenti immigratori sui quali si è poco fa insistito. In effetti, dando alla ricchezza nazionale, nel 1958, 1288 milioni, il Piemonte partecipa alla produzione totale del reddito, con l’ii% e viene subito dopo la Lombardia (21,90%). Le province piemontesi hanno una posizione di punta nella graduatoria del Paese, ad eccezione di Asti, che figura nella seconda metà della graduatoria stessa. La provincia di Torino è al terzo posto, immediatamente dopo Milano e Roma. In base al reddito prodotto per abitante, la posizione delle province piemontesi migliora ancora, e anche Asti passa nella prima metà della graduatoria nazionale. E da notarsi, a questo riguardo, che la provincia di Vercelli passa al terzo posto, superando anche Torino.

    Quanto ai consumi e al costo della vita ricorderemo, sempre a termine di confronto, che nelle campagne piemontesi verso il 1750 il consumo ‘medio per abitante si riduceva a sacchi 0,3 di frumento, 0,4 di segala, 0,2 di legumi, 0,2 di castagne, brente 2,8 di vino, rubbi 0,1 di canapa e 0,6 di olio di noce o d’oliva, con una spesa complessiva annua di lire 11.726, in tempi nei quali un hi. di frumento si pagava lire 4000 attuali, poco meno la segala, un hi. di meliga 2300 lire, un hi. di castagne 1156 lire, un hi. di vino 3500 lire, un Mg. di olio 2000 lire. Calcolando in 71.500 lire attuali il bilancio attivo medio di una famiglia di agricoltori e in lire 70.000 le spese complessive per alimentazione, vestiario, riscaldamento, ecc., ben poco rimaneva per le occorrenze varie e impreviste. Il salario annuale di un operaio dei filatoi raggiungeva normalmente le 68.000 lire di oggi. Nel primo decennio del nostro secolo, con un potere d’acquisto del denaro più che dimezzato, rispetto al 1750, la mercede media del salariato agricolo, nominalmente poco meno di tripla di quella del 1750, lo abilitava a un tenore di vita superiore di un terzo circa a quello di cui egli godeva in quell’epoca.

    Oggi, con una unità monetaria che conserva soltanto 1/283 ricca del suo valore a principio di secolo, il tenore di vita dei Piemontesi è sensibilmente aumentato e si ripartisce su una più vasta gamma di beni. Risulta, anzi, che i consumi, e conseguentemente il livello di vita, sono notevolmente maggiori in Piemonte rispetto alla media italiana. Nel 1958 il Piemonte veniva di fatto al quarto posto fra le regioni quanto a consumo di energia elettrica di illuminazione per abitante (kwh. 97,4: media nazionale 67,0); al primo posto per il numero di abbonati alla radio per iooo ab. (206,1: media nazionale 142,0); al quarto posto quanto al numero di utenti del telefono per 1000 ab. (68,7: media nazionale 41,5); al primo posto quanto a indice di motorizzazione per 1000 abitanti (630,2: media nazionale 394,2). Per contro i Piemontesi non figurano nè tra i maggiori consumatori di tabacco, nè tra i maggiori frequentatori di spettacoli. L’indice dei consumi e delle spese calcolate dal Tagliacarne mostra che i consumi decrescono dalla provincia di Torino alla provincia di Cuneo. Anche questo indice trova in testa le tre province di immigrazione, Torino, Vercelli e Novara, mentre quelle di Alessandria, Asti e Cuneo vengono in coda. Il Piemonte offre poi remunerazioni più elevate che non molte altre regioni d’Italia. Nel corso dell’anno 1958 i guadagni medi giornalieri degli operai dell’industria furono, secondo rilevazioni dell’I.N.A.I.L., di lire 1737 in Piemonte, contro una media nazionale di lire 1568. La classe operaia piemontese gode dunque condizioni di vita migliori di quelle degli altri lavoratori italiani. Non per nulla nella graduatoria delle province italiane in base al risparmio bancario e postale per abitante nel 1958, Asti è al primo posto, quella di Torino al secondo, Cuneo al quarto, Alessandria al quinto, Novara all’undicesimo, Vercelli al tredicesimo.

    Molto probabilmente, in passato, i redditi e i consumi della popolazione piemontese non si staccavano, come oggi, da quelli di altre parti d’Italia e nemmeno presentavano le attuali differenze da provincia a provincia. « Se alla scarsa entrata media » afferma il Prato « poteva corrispondere un quadro di benessere sufficiente ad assicurare, con un tenore di vita non troppo depresso per le classi povere, una solida stabilità di equilibrio sociale, ciò derivava essenzialmente dal modo molto uniforme con cui la ricchezza era distribuita, dalla scarsità di grossi patrimoni e dall’assai diffuso frazionamento della proprietà, congiunti ad un carico tributario relativamente non eccessivo… Per quanto (dalla metà del 1600 alla metà del 1700) lo sviluppo della vita economica interna avesse dovuto aumentare, con le occasioni di arricchimento, il numero dei patrimoni ragguardevoli, ancora non era il Piemonte verso il 1750 paese di frequenti grosse fortune… L’aristocrazia piemontese, lo attestano unanimi le testimonianze contemporanee, era nel suo complesso una nobiltà povera. Anche nel ceto commerciale e industriale i patrimoni di qualche entità costituivano eccezioni infrequentissime nè mai superavano somme che a noi sembrerebbero meschinissime… Gli scarsi profitti che si realizzavano nei traffici… rendevano meno rapida fra noi la formazione di quella numerosa e forte borghesia industriale nelle cui mani si veniva in altri paesi concentrando a poco a poco la ricchezza ».

    Le persone a carico della pubblica carità non superavano verso la metà del secolo XVIII il 2,30%. Ma esistevano sperequazioni assai gravi da provincia a provincia, da luogo a luogo. Per il naturale convergere dei mendicanti nei capoluoghi delle province, la media di essi vi era generalmente alquanto superiore a quella del rispettivo contado. Le percentuali più alte di poveri si riscontravano nelle vallate alpine, eccezion fatta per la valle d’Aosta. Venendo ai giorni nostri ricorderemo soltanto che nel 1956 a Torino gli aventi diritto all’assistenza sanitaria gratuita erano 6046 e 10.624 1 ricoverati in istituti stabili di ricovero: cifre che rapportate ad una città di 930.000 ab. indicano un assai modesto grado di pauperismo.

    Le maggiori provvidenze oggi disposte a favore degli indigenti non bastano, tuttavia, ad attenuare di molto le notevoli differenze che in tempi a noi più vicini si sono venute creando, in seno alla popolazione quanto all’entità dei patrimoni privati. Uno sguardo agli elenchi delle denunce dei redditi per il Piemonte mostrerebbe divari di fortune familiari ignoti, in senso relativo, alla popolazione del vecchio Piemonte. Alla maggiore differenziazione dei redditi si è accompagnata una più varia stratificazione sociale, grazie soprattutto alla formazione, operatasi nel secolo scorso, di una larga classe media, che trae i suoi cespiti principalmente dall’industria e dal commercio, e di un proletariato operaio, che si è sviluppato parallelamente all’ingrandirsi delle industrie. Oggi l’aristocrazia piemontese del sangue, pur essendo di molto scaduta rispetto all’importanza economica e sociale di un tempo, conserva discreti domini terrieri, massime nella provincia di Cuneo, e fornisce valenti capitani d’industria. Nella massa, invero eterogenea, della borghesia piemontese, si possono distinguere: un’alta borghesia che per antichità di tradizioni e larghezza di censo s’apparenta volentieri all’aristocrazia e rappresenta industrialmente il nerbo economico della struttura sociale della popolazione: una media borghesia di alti funzionari, di professionisti, di industriali, di grossisti : e una piccola borghesia di modesti impiegati, di capi tecnici, di artigiani, di operai specializzati, di piccoli proprietari terrieri autosufficienti, che raggruppa i ceti borghesi più numerosi. Nella vecchia accezione del termine, il proletariato operaio si riduce sempre di più, anche perchè, come vedemmo, molti sono gli operai di origine rurale che continuano a possedere e a coltivare, o a far coltivare, la loro terra.

    Il miglioramento economico ha portato naturalmente a notevoli progressi nel campo dell’abitazione, dell’igiene, della sanità pubblica. Secondo il censimento del 1951, per numero di abitazioni il Piemonte (1.079.182) viene subito dopo la Lombardia, che con una popolazione quasi doppia dispone di 638.830 abitazioni di più. Ma il Piemonte supera la Lombardia per numero medio di stanze per abitazione (3,4: Lombardia 3,2). A causa dei fenomeni di spopolamento a suo tempo accennati, il Piemonte figura come la regione avente un maggior numero (98.099) di abitazioni non occupate. E subito dopo la Lombardia il Piemonte viene pure per numero di abitazioni dotate di acqua potabile, latrine, bagno, impianti fissi di illuminazione elettrica e di gas per cucina. In cifre assolute il Piemonte è preceduto dalla Liguria, dal Trentino-Alto Adige e dal Friuli-Venezia Giulia quanto a minor numero di abitazioni sfornite di acqua potabile e di latrina (32.078), ma relativamente al numero di abitazioni nel complesso è al primo posto. Come era da attendersi, il maggior numero di abitazioni mancanti di acqua potabile e di servizi igienici si ha nelle province prevalentemente montuose, e cioè in quelle di Torino (9253) e di Cuneo (7451).

    In tema di stato sanitario della popolazione non si hanno per il passato indagini sistematiche, ma non manca qualche elemento cui rifarsi per immaginare il cammino percorso in questo campo. L’inchiesta del 1750, mentre segnala come buone in generale le condizioni igieniche delle aree collinari e prealpine, mettendo in rapporto con tali condizioni la robustezza, l’intelligenza, l’industriosità degli abitanti di quelle zone, lamenta come assai grave lo sviluppo dell’infezione malarica in aree paludose per il difettoso regime delle acque. E cita numerose località i cui abitanti, per l’insalubrità dell’aria, erano spesso storpi, gozzuti, idioti, idropici. Di questi e di altri malanni s’incolpava largamente il diffondersi delle risaie nell’agro novarese, lomellino, vercellese. Ma anche in montagna erano frequenti i segni di grave decadenza fisiologica di parte della popolazione. Una statistica demografica valdostana del 1787 annovera su 69.089 unità, di cui 34.104 uomini, e 34.985 donne, non meno di 1236 «fatui» e cioè l’i,78% della popolazione complessiva. Quasi contemporaneamente il conte Galleani Napione lamentava i caratteri di speciale gravità assunti dal cretinismo in vai di Susa.

    Oggi, nelle stesse province risicole, la malaria è quasi completamente debellata. E residui di cretinismo e di gozzo endemici, come di rachitismo, non si constatano che nelle aree montane più povere ed isolate, come le alte valli del Po, della Varaita e della piccola valle Bronda. Il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie generali, ma soprattutto una alimentazione più ricca e variata — mentre ancora sulla fine del secolo XVIII periodi di carestia flagellavano il Piemonte — sono alla base, non solo della fortissima riduzione di determinate malattie, ma anche di modificazioni strutturali dell’organismo, come l’aumento medio della statura. Ne ha dato dimostrazione A. Costanzo, mettendo in evidenza come fra il 1791 e il 1916 la statura media dei coscritti del comune di Casale sia aumentata da citi. 162,3 a 169,8; il perimetro toracico da cm. 84,7 a 87,3. Estendendo l’indagine a tutta l’Italia il Costanzo potè rilevare che fra il 1874 e 1910 statura media dei nati in Piemonte è passata da cm. 164,6 a 168,1. E l’aumento continua con un ritmo che situa il Piemonte in testa alle altre regioni, se si pon mente che nel periodo 1931-33 la statura media dei coscritti piemontesi è salita da cm. 169,77 a 169,87.

    Nella città di Don Bosco a Valdocco. Nuovissime scuole professionali.

    Altra conseguenza dell’accresciuto tenore di vita della popolazione piemontese è la già accennata diminuzione dell’indice di mortalità, che tuttavia, con 11,4‰ nel 1958, tocca la punta più alta di tutta l’Italia. E uno scotto che la nostra regione deve pagare proprio in rapporto alla vita più attiva e logorante che la sua struttura economica impone? Sta di fatto che quanto a mortalità per tubercolosi, il Piemonte s’accompagna ad altre regioni d’Italia, ma spicca invece al terzo posto quanto a mortalità per tumori maligni e viene decisamente al primo per mortalità dovuta a malattie del sistema circolatorio. Ed è anche in testa alla triste classifica delle morti per suicidio col 13,6% nel 1958. Ma se si guarda ai casi delle principali malattie infettive e diffusive denunciati nel 1958 troviamo che per nessuna di tali malattie il Piemonte si trova in punta delle rispettive graduatorie regionali. E ciò non soltanto in grazia di più progredite misure igieniche di prevenzione, ma anche per un’assistenza medico-sanitaria assai più diffusa ed accurata di quella che si offriva in passato alla popolazione del Piemonte. E vero che gli ospedali erano numerosi, e se ne trovavano pure in centri piccolissimi, ma rare erano anche nelle città le istituzioni veramente importanti e tali da assicurare un regolare e normale funzionamento della spedalizzazione. I mezzi terapeutici poi, si sa, erano quello che erano. Al 31 dicembre 1957 il Piemonte contava 242 istituti di cura pubblici e privati, campo nel quale la provincia di Torino supera quella di Milano: aveva 4329 iscritti agli albi dei medici, 977 farmacie (26 ogni 100.000 ab.; secondo posto dopo la Liguria).

    Passando ora agli aspetti qualitativi d’ordine spirituale, la popolazione piemontese presenta caratteristiche che la distinguono abbastanza nettamente dalla maggior parte delle altre regioni italiane. Intanto un grado di criminalità che i vari indici dimostrano essere uno dei più bassi del Paese e per contro un grado di istruzione che figura tra i più elevati. Di fatto, dal censimento del 1951 risulta che dopo il Trentino-Alto Adige, il Piemonte ha il minor numero di analfabeti, nella proporzione del 26,2‰- Così tra le province, quella di Torino (17,9‰) viene in testa, subito dopo Varese, per grado di alfabetismo. Dopo la Lombardia nessuna regione d’Italia ha tanti abitanti forniti del diploma di scuola elementare e tanti (dopo la Lombardia e il Lazio) muniti di diploma di scuola media inferiore e superiore.

    Quanto a massimo assoluto di laureati (e non dimentichiamo che il Piemonte ha una sola università, quella di Torino), vengono prima del Piemonte, il Lazio, la Lombardia, la Campania, la Sicilia. Ma se facciamo il rapporto con la popolazione complessiva di ogni singola regione vediamo affermarsi una vera preminenza piemontese in tema di istruzione, specialmente tecnica e professionale.

    E bene tener presente, a questo proposito, che a Torino hanno avuto origine i più antichi istituti per l’istruzione professionale collettiva, e che da Torino hanno preso avvio le mirabili opere di Don Bosco, del Cottolengo, del Murialdo, tendenti appunto ad istruire, in questo o in quel mestiere, i giovani figli del popolo. Tutti i mestieri, effettivamente, si possono dire rappresentati dalle 90 e più scuole comunali e private appositamente istituite in Torino. Alcune di esse, come si diceva, sono molto antiche, altre di recente fondazione come le scuole aziendali, che hanno nella Scuola Allievi FIAT un modello difficilmente superabile. E ciò a prescindere dalle 37 scuole pubbliche e private con valore legale di avviamento industriale, commerciale ed agrario, dalle 16 scuole tecniche industriali e commerciali, dei 30 istituti tecnici industriali e commerciali e scuole professionali equivalenti. Ciò contribuisce a spiegare l’elevatissimo grado di alfabetismo della provincia di Torino, mentre le altre province seguono a qualche distanza: prima Novara, col 24,3‰ di analfabeti e ultima Alessandria, col 30,2‰- Del progresso compiuto dall’istruzione popolare anche in tempi recenti è testimone il fatto che ancora nel 1921 figurava come analfabeta il 70‰ della popolazione piemontese. Indice indiretto del grado di cultura della popolazione stessa può considerarsi il numero delle rivendite di giornali e delle librerie e cartolerie che vede il Piemonte al secondo posto dopo la Lombardia. Ma anche qui, ove si faccia il rapporto con la popolazione, si vede la priorità passare al Piemonte.

    Gli istituti universitari al Valentino. In primo piano l’Istituto Elettrotecnico Nazionale « G. Ferraris ».

    Dal punto di vista linguistico la popolazione piemontese comprende gruppi dialettali diversi di cui parleremo tra non molto. Qui, in tema di istruzione e di cultura, va accennato al fatto che tanto in valle d’Aosta, quanto, nelle valli valdesi (vai Pellice, vai Germanasca e, prò parte, vai Chisone) molti sono, specialmente nel ceto colto, coloro che conoscono il francese e se ne valgono specialmente nelle relazioni con i vicini paesi d’oltralpe. L’uso del francese adottato in passato come lingua di cultura, diventato in seguito tradizionale, ed oggi rimesso in onore, ufficialmente, in valle d’Aosta, si spiega non solo con le relazioni transalpine ora accennate, ma anche con la grande affinità fonetica tra il francese e i dialetti parlati in quelle vallate. Tracce di un più diffuso impiego del francese rimangono anche tra le vecchie famiglie dell’alta valle di Susa.

    Anche sotto l’aspetto religioso la popolazione piemontese presenta una particolarità interessante, e cioè il gruppo di valdesi che ha la prevalenza numerica in una ventina di Comuni delle valli piemontesi. Un censimento ecclesiastico del 1761 fa ammontare a 15.665 i protestanti o religionari, come si diceva allora, abitanti nelle valli di Luserna (vai Pellice), di San Martino (vai Germanasca), di Perosa (vai Chi-sone), con le comunità più numerose ad Angrogna e a Bobbio Pellice. La pace e la sicurezza finalmente largite ai valdesi valsero a determinare nelle loro valli un incremento demografico più ingente e più rapido di quello delle terre circonvicine. Ma il movimento di ascesa si è presto arrestato. La popolazione valdese delle valli piemontesi ascendeva nel 1867 a 20.676 anime, a 19.730 nel 1872, a 19.315 nel 1901. Nel 1948 i protestanti delle tre valli piemontesi erano 12.570. La diminuzione dei membri della chiesa evangelica rientra nel quadro dello spopolamento montano, essendo dovuta all’emigrazione, che si divise tanto verso la Francia, la Svizzera e l’America, quanto verso i grandi centri dell’interno. In ordine agli ebrei, un censimento del 1774 ne denunciava 5667 in tutto il Piemonte, con più numerose comunità a Casale Monferrato (1340) e a Torino (1652). Oggi in Piemonte gli ebrei iscritti alla Comunità israelitica sono 3579, dei quali più di 3000 nella sola Torino.

    Là dove si sono fabbricate le prime automobili è sorta la modernissima Scuola centrale allievi FIAT « G. Agnelli ».

    Tempio valdese a Torre Pellice.

    Il tempio israelitico di Torino.

    Queste minoranze religiose non incrinano dunque sostanzialmente la compattezza cattolica della popolazione piemontese con le sue 2421 parrocchie, i suoi 29.371 religiosi (censimento del 1951), dei quali 7715 tra sacerdoti regolari, secolari e seminaristi di filosofia e teologia e 21.556 fra religiosi laici e religiose. Se bastasse il numero delle persone addette al culto per saggiare lo spirito religioso di una popolazione, bisogna dire che quello dei Piemontesi non è molto scaduto rispetto ai loro avi. Di fatto se nel 1761 gli ecclesiastici, con 22.186 unità, rappresentavano l’1% del totale degli abitanti, oggi rappresentano ancora lo 0,8%.

    Vedi Anche:  Suddivisioni territoriali