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Ferrara e il ferrarese

    Il ferrarese

    Premessa

    Dalla pianura ravennate andando al nord si passa quasi insensibilmente in quella ferrarese. Questa quarta subregione dell’Emilia-Romagna, il paese basso che dall’altra parte fa sèguito alle basse bolognesi e modenesi, zona di transizione fra la Romagna, l’Emilia occidentale e il Veneto, presenta pure suoi caratteri originali di ambiente fìsico, umano ed economico.

    Ben li mette in luce l’Ortolani a introduzione della sua monografìa su la pianura ferrarese.

    « In questo paesaggio di dossi fluviali, di bonifiche, di dune litoranee, protetto fino al secolo scorso da una formidabile cintura di acque, si è plasmato un nucleo umano distinto dagli Emiliani e Romagnoli, quanto dai Veneti. La popolazione del Ferrarese riassume in certo qual modo gli elementi culturali delle tre grandi regioni confinanti, ma su di essa hanno operato ulteriori differenziazioni le caratteristiche dell’ambiente fisico e le influenze storiche ed etniche di varia natura ».

    Anche tale sua originalità geografica fu supporto di una individualità politica, persistita a lungo, prima come potentato indipendente — la signoria poi ducato di Ferrara (1208-1598) — indi come legazione pontificia e come provincia italiana.

    « Nello spazio regolarmente circoscritto dalle acque (Po, Adriatico, paludi) — così prosegue l’Ortolani — un aggruppamento politico doveva quasi di necessità costituirsi: la protezione assicurata dall’eccellente confine naturale fu una garanzia di sicurezza per il nucleo dello Stato estense, e fu uno dei fattori che consentirono lo sviluppo d’una forma di civiltà particolare. Anche il territorio circostante alla capitale veniva tenuto deliberatamente deserto, pronto ad essere allagato in caso di necessità. Ferrara, chiusa dentro alle mura e alle paratoie, poteva trasformarsi in un bastione isolato e imprendibile, a somiglianza di Mantova, di Poznan, o di altre celebri cittàforti lagunari e insulari. La sicurezza militare del ducato trova un riflesso nello scarso numero di opere difensive e di castelli lungo i confini, almeno nei confronti con gli altri Stati periferici (castelli del Bolognese). La nostra era una campagna disarmata, senza baluardi, pregna soltanto di fango. Nell’antico ducato di Ferrara, come nei Paesi Bassi dei tempi moderni, l’acqua costituì il più importante elemento di difesa territoriale, senza che le città avessero tuttavia a soffrirne.

    « Il lungo reggimento di un unico casato, che si protrae dalla metà del secolo XIII alla fine del XVI, ha contribuito a suggellare anche politicamente i caratteri peculiari di questo lembo della pianura cispadana; il ducato, progenitore della moderna provincia, rappresentò in effetti lo sforzo più o meno cosciente della Casa d’Este per creare una combinazione geografica vitale. La bonifica ha bensì redento la fronte di paludi sul confine col Bolognese, la tecnica ha collegato con ponti le due rive del Po e ha inserito la nostra terra nella fervida attività economica della vai Padana, ma la campagna non ha cessato per questo di gravitare sulla sua Ferrara, con funzioni e aspetti paragonabili a quelli d’un antico contado medioevale.

    « In realtà, nelle regioni a morfologia, a clima, ad organizzazione economica piuttosto uniformi (sul tipo della nostra pianura cispadana) la funzione attraente di qualche grosso centro determina una differenziazione regionale basata soprattutto sulle singole sfere di affluenza degli interessi economici. Qui le città rappresentano effettivamente i “ nodi del tessuto geografico ”, il “ fermento della vita regionale ”. Questa differenziazione può anche imprimersi nel paesaggio con un progressivo coagularsi delle sedi verso il nucleo centrale, e, viceversa, con una rarefazione periferica del popolamento. Nella pianura emiliana, in altre parole, sono spesso i centri principali che ne individuano le porzioni minori. Naturalmente, una parte decisiva giuoca la rete delle vie di comunicazione; cadute in discredito le vecchie arterie navigabili, Ferrara rappresentò soprattutto un nodo di convergenza delle strade e delle ferrovie, avviate al passaggio del Po (Pontelagoscuro). Il Ferrarese rientra pertanto in quella categoria di regioni e di nomi regionali, che sono semplicemente derivati da una città».

    Il dominio ferrarese degli Estensi comprese fino al 1484 il Polesine al di là del Tartaro-canal Bianco e ancora fino al 1796 la legazione di Ferrara si stendeva fra il Po di Venezia e quella linea, territorio diviso fra il paludoso Polesine di Ficarolo (la così detta Transpadana), la podesteria di Crespino e l’isola d’Ariano. Il Congresso di Vienna (1814) portò il confine col regno Lombardo-Veneto all’attuale.

    Il Ferrarese potrebbe quindi oggi identificarsi col territorio fra il Po, il Reno e il mare. Il confine amministrativo occidentale s’aggira nel piano, lasciando Sèrmide a Mantova e spingendo il saliente di Cento nel Bolognese.

    Questo territorio, questi « Paesi Bassi » d’Italia, secondo natura poteva essere distinto, fino a non molto tempo fa, in tre parti: quella di terra, quella coperta di veli

    d’acqua a sudest e ad est e quelle che non erano… nè terre nè acque, o, meglio, un’ po’ l’une e un po’ l’altre secondo la vicenda delle stagioni: le paludi, gli acquitrini. Sennonché quest’ultima parte è stata sempre più ridotta a favore della prima mercè le grandiose opere di bonifica. Le quali ora aggrediscono anche le superstiti super -fici acquee delle « valli comacchiesi ».

    Ferrara

    Oscure le origini della città capoluogo, in una ondulazione emergente fra gli acquitrini in sinistra dell’antico braccio principale del Po. La località fu forse sede di palafitticoli e conobbe il dominio etrusco. Scarse le memorie dell’età romana e non tali da far ammettere senza controversie che proprio nel sito attuale sorgesse un abitato fin quando non si ha prima menzione di una Ferraria e Ferrariola, cioè nel-l’Vili secolo. Allora appare conquistata dai Longobardi, poi compresa nella donazione di Carlo Magno ai pontefici e, più innanzi, parte dei domini matildici.

    Il primo nucleo fu nel cuneo fra la diffluenza del Volano e del Primaro, intorno al tempio di San Giorgio Vecchio, poi la città si diffuse sull’argine sinistro del Volano e del Po detto appunto di Ferrara, al di là e a monte della diffluenza. Lo sviluppo di questa tipica città lungofiume si contenne a lungo fra la strada dell’argine (via Grande o della Ripa Grande) e la parallela via della Rotta e dei Sabbioni, probabile tratto di strada romana ad Padum. Ma già in questi secoli XI-XII si afferma la funzione commerciale di Ferrara all’apice del delta padano del tempo, in concorrenza con Venezia e con Ravenna, ed è allora che si forma e rassoda il libero Comune.

    La rotta di Ficarolo (1150), che diverge il corso del Po dall’antico all’attuale, distante da Ferrara un 5 km. a nord, e il passaggio alla signoria degli Estensi, che se ne impadroniscono nel 1208 e qui portano la loro residenza nel 1259 con Obizzo II successore di Azzo Novello, il vincitore di Ezzelino da Romano, determinano nuovi orientamenti. Continuano le lotte con Venezia, ma questa ormai è riuscita a conquistare il monopolio dei traffici marittimi nell’alto Adriatico.

    Dopo una parentesi di diretto dominio della Chiesa (1309-17), gli Estensi ne ottengono l’investitura nel 1332.

    Poeti, pittori, architetti dànno alla Corte estense un raro splendore e alla città la sua fisionomia tanto aggraziata e signorile, nel largo respiro. Nel 1391 Alberto I fonda l’Università.

    Il più antico monumento è la Cattedrale, iniziata nel 1135 (come testimoniavano i famosi quattro versi, i primi del volgare italiano, inseriti in un mosaico nell’arco del presbiterio, purtroppo manomesso nel 1712). Ma ben più numerosi sono i monumenti dell’età d’oro estense: in ordine di tempo, il palazzo comunale, iniziato nel 1243, con facciata del 1375 e rimaneggiamenti; il Castello Estense, iniziato nel 1385, imponente mole quadrata, quasi al centro dell’odierna città, con massicce torri angolari, cinte tuttora da profondo fossato; il delizioso palazzo di Schifanoia, al margine orientale della città, luogo di riposo della Corte, iniziato nel 1391 ; il palazzo dei Diamanti (1492-1565), caratteristico per le 12.600 bugne a sfaccettatura di diamante che ne rivestono la facciata; il palazzo di Ludovico il Moro, che è il capolavoro di Biagio Rossetti come architetto; la Certosa, al nord, quasi isolata, ma ancora entro la cinta delle mura (1452-61). E poi ancora, piccole gemme sparse nel tessuto della città interna, anche palazzetti privati come la casa Romei, la casa dell’Ariosto, la palazzina di Marfisa, il palazzo Roverella.

    Il nucleo centrale di Ferrara.

    La parte antica, comunque non anteriore al basso Medioevo, era nel rettangolo sudovest fra viale Cavour-corso Porta Reno-via Capo delle Volte-rione Giardino.

    Successivamente l’abitato si era ampliato verso oriente, dove sorgevano il Duomo e il Palazzo di Corte (secolo XIII).

    Una seconda «addizione» è dovuta a Borso d’Este, che nel 1451 incorporò nell’angolo sudest l’isola fluviale di Sant’Antonio e la contrada della Ghiara, da tempo abbandonata dal fiume.

    Ma ciò che dà altro particolare e preminente carattere alla struttura della città è la terza vasta «Addizione erculea» disposta da Ercole I (1471-1505) su disegno di uno dei più arditi e aperti precursori dell’urbanistica moderna, Biagio Rossetti (nato a Ferrara nel 1447, morto nel 1516). La « Addizione erculea » chiusa dall’ultima cinta murata (1492) si estese al nordest oltre il grande asse rettilineo moderno viale Cavour-corso della Giovecca, con ampie vie rettilinee incardinate sulla Giovecca e sulla fossa del Castello. L’ampio spazio (oltre 4 km.) contenne lo sviluppo della città, che anzi ne lasciò fino ai nostri giorni ampi tratti non occupati, con parchi, orti, giardini, cimiteri.

    Il Duomo di Ferrara.

    La previsione dell’urbanistica rinascimentale restò così a lungo e in tanta parte eccessivamente ottimistica per due fatti che sopravvennero: lo scadimento della città da capitale di vasto e complesso Stato qual era l’Estense del Quattro e Cinquecento a capoluogo di provincia e, nei tempi ultimi, dall’indirizzarsi delle tendenze di sviluppo piuttosto in altre direzioni, attirate dalla ferrovia, dalla strada nazionale e dal satellite industriale-portuale di Pontelagoscuro.

    Ancora poco più di mezzo secolo fa il poeta cantava, fra le città del silenzio « la deserta bellezza di Ferrara» e a lei rivolto lodava:

    … le tue vie piane,

    grandi come fiumane,

    che conducono all’infinito chi va solo

    col suo pensiero ardente,

    e quel lor silenzio ove stanno in ascolto

    Vedi Anche:  La flora e la fauna emiliana

    tutte le porte

    se il fabbro occulto batta su l’incude.

    D’Annunzio, Laudi.

    Ora non più il fabbro occulto batte su l’incude. C’è ancora qualche strada silenziosa, ove fili d’erba crescono fra le case rosse di mattoni, nei quartieri più popolari e antichi, ma le vie principali e tutt’intorno al Castello e verso la stazione e in direzione del Po sono percorse da un incessante fragore di motori e folla indaffarata di viandanti. Mentre tutta una serie di moderni stabilimenti industriali si è sviluppata, specie dopo la concessione del regime preferenziale di « zona industriale » ottenuto con legge del 1934, nell’arco dalla strada per Bologna alla stazione ferroviaria e, oltre, in propaggini verso Pontelagoscuro. Questo, già enucleato come gemmazione portuale della città sul Po, ne è divenuto un considerevole centro industriale satellite.

    Sono, le più, industrie connesse con l’agricoltura, quindi con l’antica e sempre più vigorosa funzione della città quale centro di coordinamento di vasta, popolosa, rigogliosa zona agricola, sempre più feconda col rassodarsi delle antiche e con l’estendersi delle nuove bonifiche. Sono infatti, i più grossi stabilimenti, zuccherifici e fabbriche di concimi chimici, ma anche officine di macchine agrarie, cementifici, molini, pastifici, canapifici.

    Gravissime sono state le distruzioni per cause di guerra, specie a Pontelagoscuro, ma pronta ed efficace la ricostruzione. E oggi nuovo e potente impulso ricevono le industrie ferraresi per la scoperta e messa in valore dei giacimenti metaniferi, frequenti e ricchi per tutta la zona, pressappoco, da Bondeno a Copparo.

    E pure in corso un nuovo impulso alla navigazione interna, sul Po, ma anche nei canali, di cui è progettato lo sviluppo per l’allacciamento con Porto Garibaldi (sull’Adriatico) e con Ravenna.

    La popolazione urbana, di circa 30.000 ab. all’inizio del secolo XIX, saliva appena 33.153 nel 1901 e a 37.705 nel 1911, ma a 55.022 nel 1921, 58.187 nel 1936 e 70.287 nel 1951

    Nella più volte citata pubblicazione dell’Istat sui grandi comuni italiani la città di Ferrara risulta articolata in quattro quartieri e quattro rioni. I primi corrispondono alla « città vecchia» entro il giro delle mura: San Paolo a sudovest del viale Cavour;

    San Benedetto a nord fra il viale Cavour e il corso Cesare d’Este, circa; Santo Spirito fra questo e il corso Giovecca; Santa Maria in Vado fra il corso della Giovecca e le mura meridionali. E in quest’ultimo il massimo addensamento della popolazione : 23.564 ab. su 115 ettari, densità 205 ab. per ettaro (1951). Segue per addensamento il quartiere San Paolo, che comprende il centro cittadino, ma anche un tratto verso occidente, con edilizia a maglie allentate (89 ha., 12.785 ab., densità 145).

    L’insediamento si dirada dalla linea viale Cavour-corso della Giovecca a nord: il più vasto quartiere considerato, quello di San Benedetto (143 ha.) ospita solo 8937 abitanti (densità 48,5). L’altro di Santo Spirito, più a sudest e più piccolo (80 ha.), ne raccoglie 11.176 (densità 140).

    I quattro rioni fuori le vecchie mura sono quelli di San Luca a ponente, San Giorgio a sud, Quacchio e Porta a Mare a levante, Porta Catena a nord.

    Il più vasto e popoloso è quello a ponente, San Luca, con 303 ettari e 9908 abitanti (densità 33). Gli altri hanno densità variante fra 25 (San Giorgio, che è il più ristretto: 68 ha.) e 13 (Porta Catena).

    In complesso l’area coperta dall’agglomerato urbano (quartieri più rioni) era valutata in 1028 ettari con 70.287 abitanti. Essa risultava immersa in un vasto territorio comunale steso per altri 39.407 ettari, con 63.662 ab. in numerosi centri minori, nuclei e case sparse. Ma fra i centri minori, è compreso Pontelagoscuro, i cui 2500 ab. del 1951 (oggi, ristabilite le industrie, certo molti di più) vanno aggiunti a quelli dell’agglomerato urbano, di cui è, come s’è detto, gemmazione ormai quasi saldata in continuità al suo corpo.

    Nel Comune gli addetti all’industria salirono da 10.279 nel 1901 a 15.777 nel 1921 e 18.811 nel 1951. Spiccano ben cinque zuccherifici (due a Ferrara, due a Pontelagoscuro e uno a Mizzana).>

    Pianta di Ferrara.

    La pianura ferrarese

    L’alto Ferrarese (alto relativamente, chè non ci si leva al disopra dei 15 m. sul mare) ha come centri principali Bondeno (6206 ab.) sul Panaro all’estremità orientale della ricordata bonifica di Burana (zuccherificio), e Cento (7504 ab.), alla sinistra del Reno, grosso nucleo commerciale e di industrie agrarie (zuccherificio), patria del Guercino. Accanto, però oggi in provincia di Bologna, è l’abitato, più antico, di Pieve di Cento (3800 ab.). Accostano e oggi superano i 2500 ab. Mirabello (2474 abitanti nel 1951) sulla Cento-Ferrara, e Poggio Renàtico (3036 ab.) più a sud.

    Nei limiti da noi adottati per adeguarci alle circoscrizioni comunali, notevoli contrasti si presentano fra questo alto Ferrarese (817 kmq.) e la vasta « bassa » (1812 kmq.) espressi anzitutto nella densità di popolazione: 270 ab. per kmq. nel primo e poco più di 100 nell’altra.

    L’uno e l’altra devono i caratteri del loro paesaggio odierno all’opera di bonifica, iniziata da secoli, per non dire da millenni, e tuttora in corso, interessando oggi un 200.000 ettari suddivisi fra numerosi consorzi, dei quali, per necessità di spazio, accenneremo soltanto i principali.

    Da Ferrara andando a sudest per ferrovia o per la strada statale 16, Adriatica, seguendo il Po morto e poi attraversando i terreni redenti dalle bonifiche fra il Po di Volano e il Po di Primaro è il vasto comprensorio di bonifica del Polesine di San Giorgio (49.210 ha. dei quali 8940 a scolo naturale e il resto a scolo meccanico, con numerose piccole idrovore). Più a sudovest, fra il Reno e il Po morto di Primaro, è il consorzio del III circondario (19.030 ha. di cui 1235 a scolo meccanico). A sudest le bonifiche argentane, con 14.940 ettari di comprensorio, tutti a scolo meccanico con 4 idrovore.

    Seguendo la strada indicata si raggiunge il Reno poco prima di Argenta. Si toccano così, fra gli altri minori centri, Portomaggiore e Argenta. Portomaggiore (km. 24 per ferrovia, 31 m. sul mare, 4252 ab.), vuoisi porto di mare in antico, certo poi porto di navigazione interna, sorge in una specie di isola fra lo Scolo Bolognese e il Fosso di Porto che mettono nella valle di Mezzano. Argenta (km. 34, 4 m. sul mare, 4498 ab.) è notevole centro agricolo nella bonifica cui dà nome, già disputato a lungo fra Ferrara e Ravenna, distrutto da terremoto nel 1624 e ricostruito sulla sinistra del Reno (o meglio, sotto, chè soltanto il potente argine ne la difende), quasi completamente distrutto ancora una volta nelle azioni di guerra del 1944-45, ricostruito ancora una volta, con officine varie e due zuccherifici (a San Biagio e Bando). Non lungi è Consàndolo, luogo d’estrazione di metano. Poi si arriva ad Alfonsine, nel Ravennate.

    Il Po di Volano a Codigoro.

    Verso le basse orientali si va da Ferrara con le due principali strade di Copparo e di Comacchio, questa con biforcazione, al km. 31, per Codigoro.

    Copparo (km. 20 da Ferrara, 4 m. sul mare, 5775 ab.) è un grosso borgo intorno a una vasta piazza rettangolare, ora il più importante centro metanifero della zona e con minori industrie, al margine della Grande bonifica ferrarese. Di essa si raggiunge da qui il centro Iolanda di Savoia (località « le Venezie » fino al 1911), sviluppatasi anche industrialmente (zuccherificio). Era questo il Polesine di Ferrara, con le valli di Ambrogio e di Copparo, intersecate soltanto da sottili strisce di terreno emergente.

    Si andava lungo queste ai centri posti a riparo dell’argine del Po: Ro (di fronte a Polesella), Guarda, Alberoni, Cologna, Berra. Ro e Berra sono centri metaniferi. Poi, volgendo a sudest, si va a Fermignana e a Tresigallo, centro agricolo e industriale creato secondo un piano organico nel 1934, molto danneggiato dalla guerra e ricostruito solo parzialmente (zuccherifìcio). Si giunge infine a Migliarino sul Po di Volano.

    Anche la maggiore via meridionale, deviando poco prima di giungere a Ostellato verso nordest per raggiungere e seguire il Po di Volano, viene a rasentare la grande bonifica, toccando Migliarino (zuccherificio), Massafiscaglia (3978 ab.) e conducendo a Codigoro (km. 52, 4 m. sul mare), grosso centro agricolo e commerciale e con industrie agricole, zuccherifìcio e pozzi metaniferi, con 6631 abitanti.

    La piazza di Codigoro.

    Qui sono gli imponenti impianti idrovori che servono la Grande bonifica ferrarese, compresa fra il Po, il Po di Goro, le valli salse di Mèsola, il Naviglio Volano e la strada Fossalta-Copparo-Ro per 52.595 ettari.

    I primi tentativi di bonifica per scolo naturale vi risalgono al XIV secolo. Nel Quattrocento Alfonso II li ripetè su grande scala, ma la bonifica estense, che comprendeva anche il territorio da Mèsola al mare, resistette soltanto una ottantina di anni, poi s’impaludò nuovamente. L’attuale fu iniziata nel 1872 da una Compagnia inglese, cui succedettero imprenditori italiani e quindi il tuttora esistente Consorzio. Accanto ad un primo impianto idrovoro, conservato per le acque alte di 16.158 ettari, dal 1905 se ne costruì un secondo, capace di sollevare 30 mc/sec., scoli di 32.208 ettari a livello variante fra un metro sopra e tre sotto quello del mare.

    I canali di bonifica si sviluppano per oltre 700 km., dei quali circa 70 navigabili. AH’irrigazione nella stagione secca si va provvedendo con alcune prese dal Po.

    La fisionomia agricola è diversa, secondo che si tratti di paludi prosciugate o di plaghe, generalmente meno estese e più alte, di cui lo scolo era soltanto inadeguato, ma non costantemente deficiente. In queste le colture sono più intense e la campagna è alberata; le altre presentano immense estensioni prive d’alberi.

    Diffusa è la coltivazione della barbabietola. Già abbiamo notato zuccherifici a Ferrara, Pontelagoscuro, Codigoro, Argenta, ecc.: in tutta la provincia sono ben 13 (su 29 della regione). Altra coltura caratteristica quella della canapa, ma in continua decadenza sin dai tempi della guerra 1915-18.

    Grandiose arginature occludono l’orizzonte: i corsi d’acqua vi fluiscono in alveo pensile rispetto al piano di campagna, lenti, scarsi d’acqua, melmosi per gran parte dell’anno; grossi, violenti, minacciosi nei periodi di piena. Gli argini del Po e del Reno si levano fin di 20 m. sulla campagna, cui espongono un pendio di 45 °.

    La strada provinciale continua da Codigoro al nord, fino al traghetto di Ariano sul Po (km. 84). Da Codigoro stessa ne dirama una via ad oriente, che conduce a Pomposa, ove, nella solitudine, sorge il miracolo dell’antica abbazia.

    Vedi Anche:  Storia dell'Emilia Romagna

    Nel luogo fin dal 523 d. C. sorse una chiesa. L’abbazia data dal VII-VIII secolo anche se è ricordata in documenti per la prima volta nel IX. Altrove ne abbiamo già ricordato la grande importanza culturale e politica nei secoli dal X al XIII.

    La strada poi, volgendo a nordest su una striscia sottile fra la Vallona e la valle Giralda, porta alla Mèsola, luogo di caccia degli Estensi, di cui si è salvato il rigoglioso bosco di lecci, querce e pini, già più volte ricordato (1114 ha.). Il borgo ha incorporato il caratteristico castello, conservandone le forme, e vi si è distribuito intorno. Esso è sede degli uffici direttivi della bonifica di Mèsola, distinto dalla Grande bonifica ferrarese. Il comprensorio domina 10.731 ettari, di cui una parte è ancora in corso di bonifica ed altre conservate in uso di valli da pesca.

    Da Mèsola proseguendo si giunge all’estremo centro isolato di Goro (3117 ab.), fra il fiume e la laguna, entro la « sacca » omonima del delta.

    Ancora da Codigoro una quarta via si spinge, dopo aver servito la centrale idrovora principale e toccato Lagosanto (3607 ab.) fra le valli Isola, Trebba e Ponti, ormai bonificate (Consorzio valle Isola, ecc., 4765 ha., a scolo meccanico), fino a Comacchio.

    Via quest’ultimo centro è servito principalmente dalla provinciale già ricordata, che da Ostellato (km. 33,5 da Ferrara, 1.178 ab., centro metanifero) costeggia al nord e nordest la valle di Mezzano fino a raggiungere, oltre Comacchio (km. 53), il mare a Porto Garibaldi (già Magnavacca, km. 58) e al recentissimo nucleo balneare del Lido degli Estensi.

    Le valli di Comacchio

    Ormai ben altro paesaggio domina che quello della pingue pianura : siamo nelle valli di Comacchio, ambiente unico in Italia.

    Sono vasti e sottili specchi d’acqua, in comunicazione col mare e difese dall’interramento, i fiumi e canali vicini correndo arginati. Sono quindi acque salse. All’ori-gine lagune e anche terreni depressi (come la valle del Mezzano), per i quali si ha prova che prima di far parte delle valli salse furono « valli » d’acqua dolce.

    La valle vista da Comacchio.

    Porto Garibaldi.

    La loro evoluzione è stata varia e complessa. L’area che oggi occupano è stata in tempi e per spazi diversi occupata dai successivi delta padani (di Spina, di Volano, ecc.). Avvenuta la diversione del fiume in un corso più settentrionale (secolo XII), continuando i materiali alluvionali a costiparsi senza che nuove deposizioni compensassero l’abbassamento del loro livello, le acque marine poterono coprire largamente i vecchi pennelli deltizi, in parte anche demolirli, come invadere aree di minor colmamento fra un ramo fluviale e l’altro. Rimasero emergenti le parti più alte dei tomboli sabbiosi, sotto forma di cordoni che ne riproducono la disposizione nel rispettivo delta, e la più ampia isola di Magnavacca, lido frontale che si frappone fra il mare e i terreni sommersi. All’opera delle forze naturali si associò poi quella dell’uomo, che con tagli ed escavi facilitò e mantenne l’ingresso delle acque marine e ne allontanò l’afflusso di quelle continentali.

    Le valli salse coprivano fino al principio del secolo quasi 50.000 ettari, fino a quando cioè non si iniziò il prosciugamento della parte a nord della strada-argine da Porto Garibaldi a Ostellato (10.000 ha.).

    Tutta l’economia di esse è fondata su una particolare esigenza biologica di certe specie di pesci (anguille, cefali e altre), le quali, nate in mare profondo, immigrano nelle acque basse litoranee per compiere il loro sviluppo e discendere nuovamente al mare quando abbiano raggiunto la maturità sessuale. Quindi l’opera umana si volse e si volge ad assicurare il mantenimento di condizioni favorevoli alle periodiche migrazioni, allo sviluppo e alla cattura dei pesci.

    Lo specchio d’acqua, cinto tutt’intorno da argini a difesa (valium e da ciò forse il nome di « valli «) è stato diviso, per mezzo di bassi arginelli interni, in scompartimenti detti « campi » o « valli » comunicanti col mare mediante canali in modo che, dalle « bocche » regolate con chiuse, ciascun campo riceva adeguatamente il flusso marino e ogni primavera il novellarne. Dal 1909, ostruita la bocca del Bianco a nord-est di Comacchio, unica apertura destinata ad alimentare le valli è il porto-canale di Magnavacca (detto Porto Garibaldi in memoria del salvataggio dell’Eroe compiutovi nel 1849). In questo hanno principio i canali destinati a condurre l’acqua marina nei singoli campi di pesca. E’ quindi un’opera continua di costruzione e ricostruzione e manutenzione.

    Casone e lavoriero per la pesca della anguille.

    A ciascun « campo » corrisponde un « casone », edificio a base rettangolare, situato su una striscia di terra emergente o su un terrapieno, dove si alloggiano i « vallanti ». Da ottobre a febbraio si svolge la stagione di pesca. Il pesce maturo tende a ritornare al mare e viene intercettato negli ingegnosi « lavorieri » di antichissima tradizione: sono specie di trappole di canne, a forma di diedro col vertice volto al mare e impiantate in uno scavo sul fondo della « valle ».

    Il riflusso richiama le acque e l’istinto sessuale il pesce, il quale così entra dal lato aperto nel lavoriero e vi resta imprigionato. Naturalmente questo primitivo apparecchio ha subito qualche perfezionamento, ma nel suo schema resta ab immemorabili immutato. Da marzo a settembre, poi, si svolgono i lavori di riparazione degli argini e canali, di ricostruzione dei lavorieri, eccetera.

    La gestione è affidata all’Azienda valli comunali di Comacchio. Il prodotto della pesca è variato anche in relazione alla diminuita estensione degli specchi d’acqua. Fino al 1923 su 40.000 ettari circa, la media era di 4637 quintali di anguille e 713 di cefali. Dal 1924 al 1929 su 36.000 ettari 3692 quintali di anguille e 425 di cefali, in media annua. Dal 1930 al 1933 si contava su 32.000 ettari con una produzione di 2200 quintali di anguille e 388 di cefali. Dal 1934 al 1946 circa 30.000 ettari, con 3300 quintali di anguille e 565 di cefali. Dal 1947 al 1959 la superficie ridotta a 26.000 ettari dava ancora una produzione in incremento: 4435 quintali di anguille e 904 di cefali. La punta si è avuta nel 1952 con 7200 quintali di quelle e 2200 di questi.

    Oltre il quantitativo smerciato fresco, il più alimenta una locale caratteristica industria di conservazione (anguille marinate).

    Altra attività interessante delle « valli » è la caccia degli uccelli acquatici, praticata da ottobre ad aprile. Il sistema più tradizionale e caratteristico è quello della botte o tinello.. Una botte, alla quale è stato tolto uno dei fondi, viene immersa nella valle sino a che l’orlo superiore, aperto, emerga dalla superficie dell’acqua di un palmo. L’interno è imbottito di fieno, paglia o pellicce di pecora, coniglio e simili. Il cacciatore, portato sul posto da un barchino prima dell’alba, vi si introduce e resta all’agguato, mascherato da erbe e cannucce. AH’intorno si collocano stampi, grossolani modelli in legno di uccelli selvatici, e zimbelli, cioè anitre domestiche. Il cacciatore spara dalla tinella sugli uccelli che muovendo al far del giorno fra le valli sono richiamati dagli zimbelli e attratti dagli stampi o sospinti da altri cacciatori e battitori che li fanno alzare nella sua direzione vogando coi barchini.

    Le cacce generalmente cominciano nella prima settimana di ottobre e finiscono in aprile. Le specie più abbondanti e comuni sono il germano, il fischione, l’alza-vola, il codone, la marzaiola, il mestolone, il moriglione, la moretta e la folaga; meno comuni la canapina, la pescaiola e altre.

    Sugli argini si uccidono in quantità rilevanti gambette, pettegole, piovanelli, rondini di mare, gabbiani, eccetera.

    E l’ultimo modesto paradiso dei cacciatori nella nostra regione. E che sempre più si va restringendo per l’estendersi delle bonifiche ed anche depauperando per il contrario fenomeno dell’incremento (numerico se non qualitativo!) dei cacciatori.

    Comacchio

    In questo ambiente, ma ormai al margine di esso, pure rimanendone la piccola capitale, è Comacchio (9805 ab.). Essa è nata come centro di laguna, per origine e forme non dissimili, fatte le debite proporzioni, da Chioggia o da Venezia, ma più antica forse di Chioggia, certo, e molto, di Venezia.

    La località dovette attirare abitatori sin dai tempi antichissimi, chè in vicinanza, nella valle Trebba, si sono trovate le reliquie di una necropoli, e più recentemente si è potuto ricostruire il tracciato della pianta di un cospicuo centro portuale, ormai identificato nella misteriosa Spina etrusca.

    L’abitato attuale s’impone su tredici isolette, congiunte poi da ponti e, in parte, unite col riempimento di qualche canale. E isolata nelle acque rimase fino al 1821, quando si costruì la strada in rilevato per Ostellato. Gallica, romana, bizantina, sede episcopale antichissima, le sue fortune furono spezzate da Venezia (932 d. C.). Fu poi disputata fra Ravenna e Ferrara, Pontifici ed Estensi, rimanendo a questi dal 1299 al 1598.

    Tipica costruzione vi si trova nei «Trepponti», risultante da cinque elementi che concorrono in un’unica volta sopra un incrocio di canali (1634).

    Oltre la citata industria conserviera, vi è notevole uno zuccherificio.

    Cornacchie: i Trepponti

    In vicinanza, a sudest, sono la pure antica e tradizionale salina, che occupa un centinaio di addetti, e la recente idrovora di Guagnino, che scola le acque della bonifica delle valli Isola, Raibosola e Poazzo, completando il prosciugamento delle terre al nord della strada Porto Garibaldi-Comacchio-Ostellato.

    Ma anche a sud di questa la bonifica si è ormai spinta, riducendo l’accesso a Comacchio per via d’acqua alla sola ristretta valle di Fambello. Ed è iniziata pure la bonifica della maggiore delle valli, quella del Mezzano, già disposta con un decreto reale del novembre 1942 su 36.091 ettari, ma soltanto recentemente decisa.

    La zona della Riforma

    Abbiamo già avuto occasione di accennare, volendo individuare e caratterizzare i tipi del paesaggio nell’Emilia-Romagna, all’insorgenza di uno nuovo fra essi come riflesso dell’opera di « colonizzazione » svolta dall’Ente, che ne porta il nome, istituito per l’applicazione della riforma agraria nella zona del delta padano.

    Vedi Anche:  gli edifici, il territorio e la popolazione di Bologna

    Vediamo ora un po’ più da vicino i motivi e la genesi di tale opera, le sue modalità e strumenti e i suoi effetti quali ormai si possono constatare e quali si delineano negli sviluppi in corso. Con particolare riguardo agli aspetti distributivi spaziali.

    I lavori di bonifica, fattisi così intensi dalla fine del secolo scorso, avevano attratto una numerosa popolazione bracciantile, la quale tuttavia non si era mai stabilmente legata alla terra che lavorava, ma era ugualmente rimasta insediata in prevalenza nei centri preesistenti, mentre negli amplissimi fondi bonificati si era stabilito soltanto il tipico rado insediamento a corte proprio dell’agricoltura industrializzata (abitazione del direttore o del fattore, stalla, essiccatoi, silos, abitazione dei pochi salariati fissi, intorno alla grande aia).

    Perciò il paesaggio di questi terreni di recente bonificazione, caratterizzato da grandi appezzamenti inquadrati dalle polverose stradone, rigogliosi di messi, ma pressoché privi di vegetazione arborea e di abitazioni, dava un senso vivissimo di solitudine. Qui, si, il divino del pian silenzio verde cui dà risalto e voce solo da l’alto il trillo dell’allodola.

    Qui, per vero, il latifondo, a differenza di quello meridionale, dal punto di vista economico era, in genere, largamente produttivo, ma dal punto di vista sociale comportava condizioni, che erano e in parte tuttora restano affatto insoddisfacenti per l’incapacità di assorbire tutte le potenzialità lavorative della popolazione agricola e, di contro, per la concentrazione delle leve economiche, e dei redditi, in un ristretto ceto dirigente e capitalistico, in buona parte neppur residente nella zona.

    Questo stato di cose ha condotto il legislatore a includere la « zona del delta padano », in quanto « area socialmente depressa » fra quelle soggette alla così detta legge-stralcio della riforma fondiaria, promulgata il 21 ottobre 1950. Essa si differenzia nettamente dalle precedenti leggi di bonifica, anche da quella per la « bonifica integrale », perchè il fine immediato di queste era economico, produttivistico come si direbbe oggi, e l’attuazione ne restava affidata a privati, proprietari riuniti in consorzi, mentre nella nuova « riforma » prevalgono i fini sociali d’elevazione economica e morale dei lavoratori manuali (in vista dei quali fini il conseguimento della maggior produzione possibile non diviene che un mezzo) e strumento se ne fa l’intervento diretto dello Stato con lo « scorporo » delle grandi proprietà, l’espropriazione, l’appoderamento e la « concessione » delle nuove unità culturali a coltivatori diretti, avviati a divenirne proprietari.

    Comprensorio dell’Ente Delta




    In applicazione di quella legge, con decreto presidenziale 7 febbraio 1951, veniva costituito 1’« Ente per la colonizzazione del delta padano » con il compito di disporre

    l’espropriazione, la bonifica, la trasformazione e l’assegnazione ai contadini dei terreni ricadenti entro un comprensorio, che include, in tutto o in parte, ventitré Comuni delle province di Venezia, Rovigo, Ferrara e Ravenna. La sede dell’Ente è però a Bologna.

    Il frazionamento dei latifondi e il conseguente processo di appoderamento hanno richiesto anche l’attuazione di imponenti opere quali spianamenti di terre, scavo di fosse e scoline, dissodamenti, costruzioni di abitazioni, stalle, concimaie, proservizi, acquedotti, strade, impianti elettrici, ecc., che hanno concorso a determinare una profonda trasformazione del paesaggio.

    Ed è una trasformazione alla quale corrisponde un non meno notevole mutamento nell’ambiente umano. I nuovi piccoli proprietari provengono in prevalenza dalle categorie salariali, non sono educati quindi alla responsabilità della gestione dei poderi ed hanno generalmente un livello culturale molto basso, grave ostacolo alla loro qualificazione professionale. Necessitano pertanto di un’assidua assistenza sia tecnica e sociale, sia economico-finanziaria. L’Ente mette a loro disposizione tecnici, che li assistono nella conduzione dell’azienda, e organizza corsi professionali tecnico-agricoli, oltre che d’insegnamento primario per adulti. Non solo, ma l’Ente fornisce anche scorte vive e morte per la dotazione di fondi, anticipa il capitale circolante necessario alla conduzione dell’azienda, promuove cooperative di assistenza e servizi che forniscono lavorazioni meccaniche, concimi, piante, sementi, facilitano il migliore realizzo dei prodotti agricoli e in alcune zone anche si occupano della loro trasformazione (caseifici, cantine sociali, ecc.).

    Nuove forme d’insediamento nella zona della Riforma agraria: Comunione risicola Pola, in agro di Jolanda.

    A otto anni dalla costituzione dell’Ente, cioè al 30 settembre 1958, i beni fondiari in dotazione, tenendo presenti oltre agli espropri, le permute, le compre-vendite, le donazioni, ecc., erano di ettari 44.594, dei quali 35.300 ettari costituiti in 5302 unità poderali e 45 comunioni risicole, che davano lavoro a 5715 famiglie per un totale di 36.360 persone.

    In regione, cioè nella provincia di Ferrara, erano 29.462 ettari e in quella di Ravenna 4894: insieme 34.356, cioè il 77% del totale. Ed anzi il 66% nella sola provincia di Ferrara, nella quale, come si vede, si concentra e si diffonde massimamente l’attività dell’Istituto e la sua efficacia trasformatrice dell’ambiente.

    Goro: entro la «sacca» omonima del delta padano.

    Il numero più alto degli appoderamenti si riscontra ora nelle plaghe di Copparo, Iolanda di Savoia, Mèsola, Comacchio, Argenta e adiacente Ravennate.

    L’ampiezza delle unità poderali varia a seconda della produttività del terreno e della possibilità di lavoro delle famiglie da insediare: essa deve essere tale da bastare al mantenimento delle famiglie stesse per evitare gli inconvenienti di un non meno deprecabile eccessivo frazionamento della proprietà. Attualmente anzi, alla luce delle esperienze ormai fatte e in vista delle esigenze del Mercato Comune Europeo, si è pronunciata la tendenza ad allargare la maglia poderale, per cui negli ultimi anni si può notare un aumento della estensione media delle singole unità e perfino una certa diminuzione nel numero di esse. Se infatti qualche famiglia lascia il podere o viene estromessa, esso è diviso fra poderi vicini, e nella stessa maniera si procede quando, per permute, compravendita, ecc., aumenta la consistenza dei beni fondiari dell’Ente.

    Forme particolari ha poi assunto la riforma in certe località, nelle quali la natura del terreno ha consigliato di conservare o sviluppare la coltura del riso, d’altronde altamente produttivo.

    Essa, anche in avvicendamento, non risulta, nè sotto l’aspetto tecnico nè sotto quello economico, conveniente in un regime di piccola proprietà. Si è proceduto quindi alla costituzione di « comunioni risicole », assegnando terreni anomali irrigui a gruppi di famiglie contadine per quote indivise. La conduzione è quindi fatta con forma associata in unità colturali di estensione proporzionata, ciascuna, alla entità della rispettiva attrezzatura (sili, pilerie, ecc.). A ciascuna delle famiglie che gestiscono in comune la risaia è stata inoltre assegnata una piccola quota di terreno indipendente, sulla quale viene costruita l’abitazione.

    Il processo di appoderamento aveva richiesto, fino al 1958, la costruzione di 2778 fabbricati colonici (16.930 vani). Altri 1257 fabbricati (7339 vani) erano in costruzione in quell’anno. Sono poi stati riattati 1565 edifici con 9792 vani. Le stalle di nuova costruzione erano 1440, oltre a 710 in corso e 469 riattate.

    Altro settore fondamentale d’intervento costruttivo quello della viabilità. Alla metà del 1958 erano già costruiti 173 km. di strade interpoderali e lavori in corso per 448 km.

    Il problema dell’acqua potabile veniva affrontato, tra l’altro, con la costruzione di acquedotti: eseguiti a quella data per 232 km. e per 130 in corso.

    La rete di distribuzione dell’energia elettrica era pure già estesa a cura dell’Ente per 48,5 km. La spesa complessiva fino al 1958 era stata di 24 miliardi e 489 milioni. La trasformazione agraria ha richiesto inoltre l’investimento di capitali in opere di bonifica di residui terreni paludosi che, solo per la parte approntata dall’Ente, ammonta a 1 miliardo e 20 milioni.

    La trasformazione del paesaggio è perciò derivata sia dal frazionamento dei precedenti amplissimi appezzamenti, sia dai nuovi razionali fabbricati colonici che, specie ove l’ampiezza della superficie espropriata è notevole, si susseguono in lunghe teorie sui geometrici riquadri limitati dalle strade e dai canali di scolo e irrigazione.

    Inoltre nelle zone di più intenso appoderamento, ove la popolazione insediata è numerosa e troppo lontana dai centri preesistenti, sono stati costruiti i così detti « borghi di servizio », che rappresentano i centri di vita civica e religiosa indispensabili per un insediamento sparso. Quando la popolazione non è abbastanza numerosa da giustificare la costruzione di un « borgo », si procede a quella di minori « nuclei di servizio », consistenti in una cappella o in un asilo o in una scuola, cioè nell’edi-ficio pubblico giudicato più indispensabile per ovviare quanto è possibile agli inconvenienti della lontananza dai centri.

    Si sono avuti dunque anche spostamenti notevoli della distribuzione della popolazione e degli insediamenti dalle forme accentrate alle agglomerate in piccoli nuclei e alle sparse, dai centri o dagli argini dei fiumi e canali, ove prima abitava, verso l’interno dei grandi bacini bonificati, che ora si presentano ridenti non solo per le messi, ma per le nuove strade, per i chiari colori delle casette intervallate, per la vita nuova e più intensa che in essi ferve.

    Gli effetti economici, a parte qualsiasi considerazione sul saggio effettivo degli interessi dei capitali investiti (che andrebbero commisurati a lunghissimo periodo), sono già sensibili in un aumento del volume della produzione globale della zona, inoltre più rispondente, per la sua maggiore varietà, alle esigenze del consumo locale e del mercato generale, e in un aumento della capacità di acquisto locale.

    Gli squilibri distributivi della nuova ricchezza hanno assunto tuttavia una nuova forma, ma non sono scomparsi. Cioè non è scomparso, anche se ridotto, il fenomeno della disoccupazione. Per occupare stabilmente tutta la massa dei giornalieri, convertendoli in assegnatari o coadiuvanti, ci vorrebbe ben altra area che quella espropriata ed espropriabile. Resta quindi un quantitativo ingente di mano d’opera impiegata solo temporaneamente o stagionalmente, con l’aggravante che i nuovi piccoli proprietari la richiedono in misura ridotta (tendendo a provvedere a tutto il lavoro nell’àmbito familiare). A questo potenziale di lavoro disponibile si volge quindi ancora la preoccupazione dell’Ente, che per intanto può assorbirne una parte considerevole nelle proprie opere d’infrastruttura e di bonifica, mentre la parte rimanente preme ancora sulle aree marginali della proprietà grande e media non scorporata, nelle forme tradizionali.