Vai al contenuto

I caratteri demografici, l’emigrazione e la migrazione

    La popolazione: caratteri demografici

    Lo sviluppo della popolazione attraverso i tempi

    Una storia dello sviluppo demografico della popolazione toscana attraverso i tempi si può fare con una certa approssimazione solo a partire dal XVI secolo: per l’antichità infatti e per il Medio Evo non è possibile alcun calcolo attendibile, se non per qualche singolo e più importante centro abitato. Come è noto, nel Cinquecento il Concilio Tridentino fissò l’obbligo alle parrocchie di tenere registri delle nascite, delle morti e dei matrimoni (1745), ma già prima del XV secolo in alcuni comuni più importanti della Toscana, come quello di Firenze, era stato fatto qualche rilevamento più o meno completo, almeno dei gruppi familiari, ed esistevano registri dei battezzati nelle parrocchie più organizzate e, col Quattrocento, nelle diocesi.

    Il primo censimento generale dei domini medicei risale tuttavia solo al febbraio 1551 stile fiorentino, cioè al 1552 (l’anno aveva inizio per i fiorentini il 25 marzo); allora Siena era ancora indipendente, e così pure lo erano Lucca, Massa-Carrara, Piombino e Orbetello. Il territorio della Repubblica Senese, caduto nelle mani dei fiorentini poco dopo il compimento della prima rilevazione degli abitanti, ebbe poi un censimento a sè nel 1640. Il secondo censimento generale del Granducato fu compiuto nel 1745, sempre tramite le parrocchie; anche allora il Granducato era più ristretto della Toscana attuale, ma si estendeva in compenso a quella parte della Romagna Toscana che oggi appartiene alle province romagnole. Infine, ai primi dell’Ottocento, fu istituito a Firenze lo «stato civile», organizzato con somma cura dopo il 1848 dal noto geografo e statistico Attilio Zuccagni-Orlandini.

    Secondo i dati, pur lacunosi fino al secolo scorso, la popolazione della Toscana sarebbe aumentata di circa 150.000 abitanti tra il Cinquecento e la fine del Settecento, quando la popolazione stessa ammontava a circa 1,2 milioni. All’unità d’Italia gli abitanti raggiungevano 1,9 milioni, saliti poi a 2,7 nel 1921, ed a 2,9 nel 1931. In quest’ultimo dopoguerra si è poi avuto un ulteriore aumento fino a quasi 3,3 milioni nel 1961, con una densità media di 142 abitanti per chilometro quadrato (Italia 168) (vedi tabelle alla fine del volume).

    Le fasi di questo considerevole e generale sviluppo della popolazione sono, come si è detto, variabili nel tempo e soprattutto molto diverse da parte a parte: se ne dirà meglio in seguito. Numerosi ed anch’essi diversi nel tempo sono naturalmente i fattori che hanno favorito l’accrescersi del numero degli abitanti e, in qualche caso, la loro diminuzione : sviluppo dei centri urbani, bonifiche interne e costiere, estendersi dell’appoderamento, sorgere dell’industria, sviluppo e poi abbandono di attività tipiche della montagna e, nel passato, carestie, guerre, alternarsi di ordine e di disordine politico. Il movimento della popolazione appare poi legato largamente negli ultimi decenni, ai movimenti migratori interni e con le regioni vicine, oltre che alla natalità ed alla mortalità.

    La natalità in Toscana è sempre stata inferiore alla media di quella nazionale. Avanti il primo conflitto mondiale, essa si aggirava tra il 28 ed il 29 per mille (Italia 31 -33), superiore solo a quella della Liguria e del Piemonte, e discese dopo la guerra al 26 per mille (Italia 29,3 nel 1924). Negli ultimi anni essa si è ulteriormente ridotta sino a circa il 12 per mille, di fronte ad una media italiana superiore al 17. Presentano natalità inferiori solo il Friuli-Venezia Giulia, la Liguria ed il Piemonte. Nella stessa Toscana i valori variano naturalmente da parte a parte e diminuiscono in modo particolare nelle città e nelle aree industriali. Nel dopoguerra è sensibilmente diminuita anche la natalità delle popolazioni di montagna.

    La mortalità appare invece lievemente superiore oggi a quella nazionale (10,2 per mille di fronte a 9,7 per mille). I Toscani risultano secondo i dati ufficiali i più longevi d’Italia: l’età media dei morti è di 73 anni, di fronte a 70 anni di quella italiana.

    La distribuzione degli abitanti

    Uno sguardo alla carta della densità della popolazione mostra a prima vista come la Toscana sia in realtà un mosaico minuto di aree ben diversamente popolate. Ogni calcolo condotto su territori un po’ estesi perde perciò di significato e i valori medi delle province, degli stessi comuni sono quasi sempre un’astrazione che si allontana dalla realtà delle singole parti; è raro trovare in Toscana, se non in talune parti collinari, una unità amministrativa che non comprenda spazi tra loro diversi per aspetti naturali ed antropici.

    Densità della popolazione (cens. 1951).

    Vari sono i motivi che hanno attratto o allontanato la popolazione da un’area piuttosto che da un’altra: motivi naturali, come rilievo e clima, motivi storici, quali le vicende politiche delle varie città e l’antichità del popolamento, lo sviluppo recente delle bonifiche, dell’industria moderna, del turismo, motivi di posizione rispetto alle comunicazioni terrestri ed al mare, motivi infine prettamente demografici e sociali, come la natalità e l’attrazione dei centri urbani. Si deve anche rilevare che, come meglio diremo, il quadro attuale della popolazione toscana non corrisponde a quello dei secoli passati, non solo per il generale aumento del numero degli abitanti, ma per le forti differenze con le quali tale aumento si è manifestato da parte a parte, in relazione alle diverse fasi di sviluppo della vita regionale.

    Tralasciando per ora una dettagliata analisi delle cause, osserviamo come si distribuiscono grosso modo le aree di maggiore densità.” Un primo importante accentramento di popolazione si trova nella Toscana interna settentrionale, nella pianura intorno a Firenze, Prato, Pistoia. Si ha qui un addensamento molto rilevante: su poco più di mille chilometri quadrati di superficie, pari a circa il 4% della regione, si raccoglie una popolazione di quasi 800.000 abitanti, pari al 25% di quella regionale. Vari fattori hanno contribuito a creare un tale addensamento: una pianura all’inizio paludosa, ma poi bonificata e fertile, con possibilità di irrigazione, al contrario delle colline circostanti aride in estate, l’antichità dei centri abitati sui suoi margini e il loro passato di prosperità, la posizione geografica allo sbocco di importanti vie transappenniniche, la facilità delle comunicazioni interne. Tutto ciò ha favorito lo sviluppo di numerose attività economiche tra loro legate: la grande industria moderna accanto al vecchio artigianato, un’agricoltura intensiva con orti e vivai al servizio delle città vicine, un commercio prosperoso, un’intensa vita urbana: la sola Firenze raccoglie la metà della popolazione della pianura, Prato e Pistoia un altro terzo.

    La pianura fiorentina si continua ad ovest di Pistoia, oltre i rilievi di Serravalle, in una stretta fascia pedemontana fino all’ubertosa campagna di Lucca. Sono qui vari centri, più piccoli, ma frequenti: oltre alla città capoluogo, Montecatini, Pescia, Monsummano, Altopascio, che fondano la loro economia su industrie in genere non molto grandi, ma assai fiorenti. L’agricoltura è sovente specializzata come nei vivai di Pescia e nei rinomati orti lucchesi; la proprietà fondiaria non è vasta e in buona percentuale in mano a proprietari coltivatori diretti. Anche qui la popolazione raggiunge una forte densità, intorno a trecento abitanti per chilometro quadrato, cifra questa non trascurabile se si pensa che non vi sono grandi agglomerati come Firenze. Se si escludono anzi le città, si ha qui una delle aree più popolose, con densità rurali o per lo meno non urbane che raggiungono in qualche tratto punte di più di mille abitanti per chilometro quadrato, come intorno a Pescia. Ma si tratta, come si è detto, di una fascia: a nord i primi rilievi appenninici, a sud la piana di recente bonifica e non del tutto appoderata determinano una brusca diminuzione della popolazione e creano una zona di separazione con la montagna e con il Valdarno Inferiore.

    Quest’ultimo, considerando solo la fascia pianeggiante, costituisce un’altra area di denso popolamento con densità medie che superano i 300-350 abitanti per chilometro quadrato. E questo il solco, il solo grande solco, che unisce la Toscana interna con quella marittima, lungo il quale corrono le vie che congiungono i principali centri toscani (Firenze, Pisa, Livorno), ove sboccano le valli dell’Antiappennino senese e volterrano. Per la sua posizione, aperta ai rapporti con le regioni contermini, è dunque questo un territorio dinamico, ricco di centri, taluni di origine antichissima, altri di origine assai moderna, posteriori cioè alle bonifiche, all’unità politica del Granducato e allo sviluppo dei trasporti ferroviari e stradali. Empoli, Pontedera, Càscina, Fucecchio sono centri industriali, artigianali e commerciali tra i più importanti della Toscana e intorno ad essi si muove l’economia della valle. Si tratta dunque anche qui di un accentramento prevalentemente urbano, suddiviso però in numerosi centri, con una campagna pur essa abbastanza popolosa e abitata sia da contadini che da operai.

    I nuclei urbani sono certamente il fattore principale delle elevate densità che si registrano in media anche nella pianura pisana e livornese: le città cioè con le loro propaggini, i loro sobborghi, la loro area di attrazione di manodopera. Le campagne di Pisa e di Livorno sono però aree di bonifica relativamente recente e perciò con densità agricole non alte, e in parte non sono ancora appoderate. Da Pisa si prolunga poi verso Càscina, intorno all’Arno, una fascia di economia rurale, artigiana e industriale insieme, di vecchio popolamento, con densità intorno a cinquecento abitanti per chilometro quadrato.

    Sempre nella Toscana settentrionale, lungo le coste a nord del Serchio, intorno a Viareggio ed in Versilia, si estende un’altra zona di fitto popolamento, o meglio ancora due zone: una strettamente costiera di sviluppo recentissimo e una più interna ai piedi delle Apuane, dove sorgono centri come Carrara, Massa, Pietrasanta. Questi centri fiorirono quando ancora la pianura era paludosa e la costa, esclusa Viareggio, spopolata, traendo dal marmo, dall’artigianato, dall’agricoltura locale, dal commercio con le valli montane, e anche dal mare i motivi di sviluppo. Il progresso dell’attività balneare ha in seguito dato un forte impulso anche alle attività e al popolamento della fascia litoranea; oggi la densità è in media superiore a cinquecento abitanti per chilometro quadrato, considerando nell’insieme tutta la pianura. Vi è poi qui una densità stagionale che raggiunge valori eccezionali: durante l’estate la striscia costiera conta a tratti oltre diecimila abitanti per chilometro quadrato.

    Vedi Anche:  Storia della Toscana

    Molto abitate sono, tra le aree minori, le conche appenniniche interne, nelle loro parti centrali, non solo perchè sono costituite da terreni alluvionali più fertili di quelli circostanti, ma perchè sono le naturali aree di attrazione di più o meno vasti bacini orografici. La Garfagnana, soprattutto nella sua parte media, dove sorgono i centri di Barga, di Castelnuovo, di Gallicano, raggiunge densità superiori a trecento abitanti per chilometro quadrato, e localmente anche più. Così è del Mugello, intorno a Borgo San Lorenzo e a San Piero a Sieve, e del Casentino, intorno a Bibbiena e a Poppi: i centri sono qui piccoli capoluoghi regionali e raccolgono industrie, commerci, uffici amministrativi e scuole. Un’area ben più estesa con discreto popolamento, di poco superiore alla media regionale (oltre 150 abitanti per kmq.), è quella del Valdarno di Sopra, nella sua area centrale, della piana di Arezzo e di larga parte della Valdichiana, cioè il grande solco della Toscana interna, diretto da nord a sud, tra l’Appennino e l’Antiappennino. Del Valdarno, dove nel fondovalle di San Giovanni e di Montevarchi, si giunge anche a cinquecento abitanti per chilometro quadrato, le risorse minerarie e industriali (stabilimenti siderurgici, meccanici, tessili, alimentari, del cemento, ecc.) hanno avuto non poco peso nello sviluppo demografico. A ciò si deve aggiungere l’importanza della valle come via di transito e come zona di confluenza delle attività commerciali di una vasta regione collinare e montana.

    Piccole aree di densità superiore alla media si trovano poi sparse qua e là in altre parti della Toscana, ma sono legate soprattutto alla presenza di centri urbani come Siena, Piombino, Cècina, Poggibonsi. Anche nell’isola d’Elba, nei comuni di Rio Marina, di Portoferraio, di Marciana, la densità sale a valori superiori a quelli medi della regione. Un’isola di forte popolamento è poi costituita dal Monte Argentario, ove soprattutto si consideri insieme anche la penisola di Orbetello: qui da secoli sulle coste alte e portuose sono sorti attivi centri pescherecci come Porto Santo Stefano e Porto Ercole.

    Al di fuori di queste aree, per vasti tratti sia dell’Appennino settentrionale e orientale, sia dell’Antiappennino e della fascia costiera meridionale la popolazione è molto più scarsa. Le aree con appena 70-80 abitanti in media si estendono in un ambiente di collina e di media montagna nella Lucchesia come nel Pistoiese, nel Mugello collinare come intorno al Pratomagno, nelle colline senesi e grossetane, in un ambiente cioè essenzialmente agricolo fuori delle grandi vie di traffico, lontano dalle grandi città, dove l’economia agraria, fondata prevalentemente sul regime mezzadrile, risente da decenni di una crisi sempre più grave. Le densità si abbassano ancora, sotto i cinquanta abitanti nelle fasce montane appenniniche, dove l’insediamento umano permanente termina intorno ai 1300 metri e anche nelle montagne del Chianti e in quelle Metallifere tra il Senese e la Maremma, soprattutto nel medio bacino dell’Ombrone e tra l’Albegna e la Fiora (meno di venticinque abitanti per kmq.). Qui l’agricoltura, che è praticamente la sola risorsa degli abitanti, è condotta in modo tradizionale, senza progressi tecnici e senza impiego di forti capitali. Più popolose sono invece le pianure maremmane di bonifica, dove si superano i 50-60 abitanti.

    Il quadro delle aree di maggiore e minore densità della popolazione quale abbiamo ora dato, mette in luce più da vicino le cause, già accennate, che hanno provocato condizioni così diverse. Si pone, a prima vista, l’immediatezza del rapporto tra le densità ed i tipi di regioni naturali, intendendo quest’espressione non tanto come unità idrografiche od orografiche, quanto come tipi di paesaggi morfologici ed altitudinali, cioè di pianure, di colline, di montagne. Sono infatti le pianure interne e costiere, piccole e grandi, a costituire le aree di maggior densità, superiori a cinquecento abitanti per chilometro quadrato, pur con forti differenze da parte a parte. Questo fenomeno dell’addensamento della popolazione nelle aree piane è avvenuto però soltanto negli ultimi secoli e sempre di più negli ultimi decenni, dopo una profonda opera di trasformazione da parte dell’uomo che ha fatto di un ambiente naturale, di per sè poco ospitale e spesso malarico (paludi, fiumi vaganti, inondazioni), un ambiente ben adatto all’agricoltura, facile alle comunicazioni e perciò anche allo sviluppo delle industrie e dei centri urbani. Ma si deve pure osservare che le pianure, anche se poco estese, sparse qua e là nella regione, rappresentano aree di convergenza naturale, in senso fisico come in senso economico ed umano, di più o meno vasti territori circostanti collinari e montani, rappresentano cioè, almeno nella Toscana interna, il centro di regioni naturali più estese e di quei bacini orografici di cui abbiamo più volte parlato.

    Villaggi colpiti dallo spopolamento nell’Appennino Lucchese.

    Può essere diverso il discorso per le pianure della Toscana marittima dove, intorno a Pisa, la posizione geografica allo sbocco del Valdarno ha avuto certo importanza primaria, favorendo il sorgere di centri urbani industriali e commerciali. Per la pianura versiliese è stato soprattutto il turismo a fare negli ultimi decenni, della fascia costiera una delle maggiori aree di attrazione umana, e di immigrazione anche da altre regioni italiane. Vi è tuttavia un’eccezione costituita dalle pianure della Maremma, che sono ancora tra le meno popolose della regione perchè di bonifica recente, di recente appoderamento, e lontane dai grandi centri della più moderna attività economica regionale.

    Malgrado l’antichità del popolamento, la collina, anche quella più rigogliosa, che costituiva una volta la fascia più abitata, appare oggi con una popolazione molto più rada di fronte a quella della pianura e con un movimento demografico tendente alla stabilità e qualche volta anche alla diminuzione del numero degli abitanti. Tanto più la montagna costituisce un’area di spopolamento e di emigrazione, anche se, dopo l’abbandono registratosi nella prima metà di questo secolo, si è manifestata la tendenza ad una certa staticità demografica.

    Poderi abbandonati nell’alto Appennino Tosco-Romagnolo.

    Variazioni storiche del popolamento

    Il quadro attuale della distribuzione della popolazione toscana risponde solo in parte a quello del passato vicino e lontano: anticamente, nel periodo di sviluppo e di espansione della civiltà etrusca, la maggior parte degli abitanti non si raccoglieva nelle vallate della Toscana settentrionale e in quelle interne come accade oggi, ma soprattutto nelle fasce costiere e meridionali, dove poi, nel Viedio Evo e fino all’epoca moderna, la densità diminuì invece in misura molto notevole. Le grandi città etnische sorgevano numerose, come già si disse, sulle alture e lungo la costa della Maremma, come Populonia, Vetulonia, Talamone, Roselle e altre minori, oppure nell’interno, come Chiusi, Cortona, Arezzo. Nella parte centro-settentrionale esistevano solo Volterra e Fiesole. Già in epoca romana questi centri cominciarono a perdere d’importanza anche se nuove colonie sorsero sulla costa, come quella di Cosa, e il centro della vita economica e politica cominciò a spostarsi verso l’interno, dove furono aperte nuove importanti strade, furono fondate nuove città, tra cui Firenze e Pistoia, furono colonizzati estesi tratti di pianura.

    Durante il Medio Evo, il disordine politico e l’insicurezza della fascia costiera, derivante dai frequenti attacchi pirateschi dal mare, accentuò il fenomeno della decadenza della Toscana marittima di fronte a quella interna, dove presero impulso, soprattutto con l’epoca comunale, i grandi centri che dominarono poi fino all’unità d’Italia la vita della regione: Firenze, Siena, Lucca, Arezzo, Pistoia, per  non ricordare che i più importanti e, verso il mare, Pisa.

    Per avere un quadro abbastanza preciso della distribuzione della popolazione toscana occorre però risalire, come si è detto, ai tempi moderni, cioè ai primi regolari censimenti.

    Alla metà del Cinquecento le parti più popolose erano già quelle corrispondenti a una larga parte del Valdarno Inferiore, particolarmente intorno a Pisa, alla pianura di Firenze e Pistoia, come pure al Valdarno di Sopra. Tralasciando i maggiori comuni urbani, dove naturalmente la densità risultava molto alta (oltre cinquecento abitanti per kmq. a Firenze), si avevano medie superiori in generale a cinquanta abitanti e, nelle zone interne anche a cento abitanti (San Giovanni Valdarno, 165). A queste aree più fittamente popolate si opponeva la fascia costiera, specie a sud di Livorno, con densità inferiore a dieci abitanti, che salivano sulle vicine colline intorno a venti. La stessa montagna appenninica, contrariamente a quanto oggi accade, appariva assai più popolosa, tranne i pochi comuni più alti, raggiungendo medie fra i trenta ed i cinquanta abitanti.

    Dopo due secoli, alla metà del Settecento (censimento del 1745 e, per Lucca, del 1744) la situazione appare notevolmente mutata da parte a parte: mentre il Val-darno medio inferiore costituisce sempre più un accentramento di popolazione con densità che superano i cento ed anche i duecento abitanti per larghi tratti, si delinea ormai lo sviluppo da un lato delle fasce pedeappenniniche settentrionali, intorno a Pescia e a Lucca, dall’altro della zona costiera intorno a Livorno, soprattutto a causa della città che due secoli prima aveva appena poche centinaia di abitanti. La montagna comincia invece a diminuire e già si può parlare di una prima fase di spopolamento delle aree alte per la tendenza a migrare verso le città e le pianure.

    Gli stessi fenomeni appaiono molto accentuati nel nostro secolo, quando l’attrazione della pianura si è fatta particolarmente forte per lo sviluppo dell’industria, dei trasporti, dei commerci: sicché oggi, come già si è detto, il Valdarno tra Firenze e il mare, la pianura fiorentina e la fascia tra Pistoia, Montecatini e Lucca fino alle pianure costiere della Versilia, appaiono non solo come le zone più popolose della Toscana, ma tra le più densamente abitate d’Italia. Rispetto al Settecento anche la collina e la montagna hanno visto un lieve aumento, malgrado la decadenza delle vecchie attività economiche e l’abbandono dei poderi e dei centri più elevati.

    Vedi Anche:  Monti, poggi, pianure e coste

    Per la Toscana meridionale un calcolo relativamente preciso della popolazione può esser fatto soltanto alla metà del Seicento, quando molti decenni dopo l’annessione della Repubblica Senese (1559), Firenze ordinò un censimento dei nuovi territori (1640). Tutta questa regione era allora molto poco popolosa e la popolazione andava decrescendo notevolmente dall’interno verso la fascia costiera: si avevano qui in alcuni comuni, dove ancora doveva iniziarsi l’opera di bonifica ed era largamente diffusa la malaria, densità inferiori a cinque abitanti per chilometro quadrato, con una media in tutta la Maremma di appena dieci. Invano i Medici dopo aver colpito con dazi, imposte, vincoli di ogni sorta il commercio agricolo che costituiva allora la massima risorsa delle campagne granducali, tentarono debolmente una colonizzazione di quella regione, con trasferimento di contadini, ma senza sufficienti lavori di risanamento e di prosciugamento.

    Sulle Colline Metallifere e intorno all’Amiata, verso Siena, le condizioni migliorarono via via, malgrado la peste del 1630 avesse mietuto un gran numero di vite umane; la modesta agricoltura, ancorché latifondistica o in mano a miseri piccoli proprietari, consentiva densità tra dieci e venti abitanti nelle valli dell’Ombrone, dell’Orcia, dell’Arbia. Un’isola di alto popolamento era costituita da alcuni comuni montani dell’Amiata (Castel del Piano, settanta abitanti per kmq.) come pure dalle colline intorno alla Valdichiana (circa cinquanta abitanti per kmq.). Al censimento successivo, cioè un secolo dopo (1745), non si può dire che le condizioni fossero molto mutate e che il popolamento e l’economia della Toscana meridionale apparissero migliorate: il malgoverno mediceo aveva lasciato in un completo abbandono territori che richiedevano invece una politica di bonifica, di assistenza, di libertà, sicché la popolazione era andata diminuendo in varie parti del Grossetano e anche nell’interno dei bacini dell’Ombrone e dell’Orcia. Aumentano tuttavia alcuni comunì della Valdichiana, per le bonifiche realizzate all’inizio del Seicento, e la parte settentrionale della provincia di Siena, che partecipa più attivamente all’industria e ai commerci e sente il richiamo di Firenze e della ricca valle dell’Arno.

    Il secolo successivo, fin verso la metà dell’Ottocento, segna invece un considerevole aumento della densità di popolazione nel rinnovato clima economico-agrario dovuto ai Lorena e in rapporto all’estendersi delle bonifiche costiere e interne: ma la nuova provincia di Grosseto, costituita nel 1766 da Pietro Leopoldo, stendentesi tra l’Amiata, le Colline Metallifere e il mare, rappresenta pur sempre l’area meno popolosa del Granducato, ancora infestata dalla malaria, con una densità media da cinque a dieci abitanti, via via più forte verso l’interno (fino a venti-trenta). Fanno eccezione il comune di Pitigliano, salito a 31 abitanti, soprattutto per l’impulso dato da una vecchia colonia ebraica dedita al commercio tra la Toscana e lo Stato Pontificio, e la zona del Monte Argentario (39 abitanti), con l’isola del Giglio (62 abitanti, il doppio che un secolo prima). Si erano avute qui forti immigrazioni di pescatori meridionali e catalani.

    Isola a sè diviene più che mai il Monte Amiata, dove l’estendersi dell’agricoltura, in parte per l’alienazione dei beni del monastero di San Salvatore, e il conseguente allargarsi della piccola proprietà coltivatrice e dello sfruttamento forestale, portano a densità finanche di cento abitanti per chilometro quadrato (Castel del Piano). Nelle Colline Metallifere del Senese il processo di sviluppo è più marcato, ma non troppo rapido; solo intorno a Siena e a nord della città si osserva un progresso demografico molto accentuato in alcuni comuni, come Poggibonsi (73 abitanti di fronte a 40 del secolo precedente), Colle Valdelsa, alcuni comuni del Chianti, dove artigianato e industria e commercio del vino hanno creato nuove importanti risorse di vita. Anche la Valdichiana, ormai del tutto bonificata, si avvia ad essere una delle terre più popolose della Toscana con densità che si avvicinano ai cento abitanti.

    Il fatto nuovo dell’ultimo secolo è l’estendersi dell’aumento della popolazione alle fasce costiere meridionali, finalmente redenti dalla bonifica: già prima della guerra il tasso d’incremento risultava particolarmente forte lungo la costa, dove a Follonica si superavano i cento abitanti di fronte ai dieci di un secolo precedente. Oggi la densità è ormai ovunque superiore ai cinquanta abitanti per chilometro quadrato e si riduce invece, con un fenomeno inverso a quello avvenuto in passato, verso l’interno, dove sulle Colline Metallifere, lungo l’Ombrone e l’Orcia, l’economia è rimasta assai più statica, e di conseguenza assai minore è stato anche lo sviluppo della popolazione.

    Le migrazioni interne e l’abbandono della campagna

    Gli spostamenti dalle campagne verso le città e le aree industrializzate si sono manifestati in Toscana, come in altre parti d’Italia, con ritmo sempre crescente negli ultimi decenni: a questo fatto è dovuto appunto il grande aumento di popolazione dei centri abitati e delle circostanti zone di pianura. La maggiore possibilità di trovare lavoro, dato lo straordinario aumento di richiesta di manodopera nei settori industriali, commerciali, dei trasporti, del turismo, ecc., e la speranza di una vita più confortevole con possibilità di istruzione e di miglioramento sociale e spirituale, hanno portato alla decadenza deirallevamento e deireconomia montana e si sono uniti alla crisi della mezzadria nelle zone collinari nel determinare una sempre maggiore fuga verso le città.

    L’area di migrazione giornaliera verso Prato (Barbieri).

    La tendenza a lasciare il paese natio si è avuta dapprima nelle aree più povere della montagna, già durante i secoli scorsi, con particolare impulso nei primi decenni del Novecento: malgrado la natalità, ancora forte, si sono così avute diminuzioni sensibili, anche del trenta e più per cento nel numero degli abitanti in alcuni comuni delle valli apuane, dell’Appennino Lucchese e Pistoiese, della Romagna Toscana, della montagna aretina. L’emigrazione cominciava spesso con lavori stagionali in alcune parti della Toscana o di altre regioni o all’estero e si trasformava quindi in spostamenti definitivi di tutto il nucleo familiare.

    Comuni con diminuzione della popolazione negli ultimi 50 anni.

    La lotta combattuta dal fascismo contro l’urbanesimo attraverso le leggi che non consentivano i trasferimenti interni, negando il domicilio nelle nuove sedi se non per provati motivi di lavoro, non fermò certo quello che era un naturale processo economico e sociale e creò solo delle situazioni assurde ed irregolari : la effettiva popolazione delle città di maggior sviluppo industriale e commerciale divenne in realtà assai più forte di quella risultante all’anagrafe. Sempre più numerosi si fecero poi gli operai che venivano ogni giorno a lavorare in città conservando il domicilio nel paese nativo. Quest’ultimo fenomeno, che è anch’esso una forma di spopolamento delle campagne, si manifesta tuttora con migrazioni giornaliere verso i centri industriali divenute sempre più forti, che fanno sì che gli abitanti di certi villaggi minori della campagna vivano in realtà non delle risorse locali ma di quelle di una sede lontana talora anche molti chilometri.

    Lo scarso rinnovamento edilizio dei villaggi montani testimonia un costante processo migratorio (Castelvecchio nella montagna pesciatina).

    Le aree di attrazione maggiore sono sempre state in Toscana quelle della parte settentrionale della regione, dove più forte è stato lo sviluppo di un’economia moderna.

    I piccoli proprietari emigravano spesso, come ancora accade, attraverso tappe successive, portandosi cioè in poderi inferiori, poi nella periferia cittadina, ed inurbandosi infine in modo completo. I beni del paese nativo erano così un po’ per volta abbandonati o venduti, via via che tutto il nucleo familiare raggiungeva i primi emigrati.

    Già prima dell’ultimo conflitto, ma soprattutto nel dopoguerra, un nuovo importante movimento è venuto poi a complicare e ad aumentare gli spostamenti interni della popolazione toscana, cioè l’esodo dei mezzadri, aggiuntosi a quello dei piccoli proprietari delle fasce più alte. Si dirà meglio delle cause economiche e psicologiche di questo abbandono dei poderi da parte dei componenti della famiglia mezzadrile e di tutti i nuclei familiari, fatto che rivela in se stesso il superamento del vecchio istituto che ha retto per secoli l’agricoltura toscana. Ai mezzadri delle parti più povere si uniscono quelli della collina nella stessa fuga verso i centri piccoli e grandi, ove sia possibile aprire un negozio, trovare un impiego in qualche impresa e dove comunque si rompe l’isolamento dei campi; la fortuna di pochi stimola, naturalmente, le speranze di tutti.

    Panzano, nel cuore del Chianti, una delle regioni toscane più colpite dallo spopolamento rurale.

    Ma ecco che verso i poderi abbandonati, ormai così frequenti in ogni parte della regione, comincia subito dopo la guerra un’immigrazione di coloni dal Sud: erano in un primo tempo soprattutto siciliani, non tutti contadini, spesso anche proprietari non coltivatori, che acquistavano per speculazione, probabilmente per impiegare i denari accumulati durante il conflitto. Il fenomeno parve esaurirsi dopo qualche anno, quando invece si allargò di nuovo e si estese, assumendo un nuovo carattere, con l’immigrazione di coltivatori non solo dalla Sicilia, ma dalle Marche, dall’Abruzzo, dalla Campania, che riempivano i vuoti lasciati dai mezzadri e dai proprietari emigrati. Pare che oltre 25.000 ettari siano passati per acquisto in questo dopoguerra in mano ai coloni emigrati. A questi devono aggiungersi i terreni passati ad altri mezzadri, pure immigrati, che non hanno potuto acquistarli. Purtroppo grosse speculazioni, finalmente sfociate in gravi denunce alla Magistratura, hanno accompagnato questo importante fatto sociale ed economico.

    Il fenomeno non è soltanto toscano, ma si estende largamente all’Italia settentrionale e ad altre regioni di quella centrale. In una recente acuta indagine sulle emigrazioni rurali italiane, il Barberis osserva che « la regione statistica Toscana-Umbria-alto Lazio ha presentato, tra il 1954 e il 1957, il più elevato indice di deruralizzazione delle forze di lavoro. Che esso sia dovuto alla Toscana come regione geografica ed alla mezzadria come tipo di impresa, ci pare assai probabile, anche se nelle indagini dell’Istituto Centrale di Statistica, la presenza del forte gruppo dei coadiuvanti impedisce, per l’Etruria non meno che per altre terre d’Italia, un’asserzione definitiva.

    Vedi Anche:  Cultura e tradizioni

    «Secondo un rilievo desunto dai dati S.E.N.L.C.U.A. sui movimenti migratori dei mezzadri nelle province delle Marche, della Toscana e dell’Umbria durante il quinquennio 1953-57, su 185.347 nuclei familiari colonici presenti all’inizio del periodo, ben 131.194, pari al 70,7 per cento, sarebbero stati interessati a fenomeni migratori.

    « Questa eccezionale mobilità residenziale della famiglia mezzadrile, che di per sè mina la base del vecchio patto societario, fondato sulla lunga consuetudine del nucleo umano al podere, si accompagna ad un forte esodo: ad una emigrazione di 59.987 nuclei si contrapporrebbe una emigrazione di 71.907 nuclei, con un decremento effettivo di 12.620 nuclei e di 168.773 unità che sarebbe il risultato ancor più forte se nella quota immigratoria non fossero stati inclusi i provenienti da aree estranee da quella considerata, come i meridionali. E significativo che il decremento attinga la punta massima in Toscana, con il 9,8 per cento del complesso dei nuclei esistenti nella regione.

    «Che le aree mezzadrili siano, in Toscana, le più provate dall’esodo, può essere arguito anche dal fatto che l’emigrazione di agricoltori meridionali e marchigiani appare assai meno pronunciata nelle aree dove più diffusa è la piccola proprietà coltivatrice. Occorre essere guardinghi e non attribuire una spiegazione sociale ad una semplice indicazione geografica, pure non è senza interesse che si rileva come il fenomeno migratorio sia fortissimo nelle province dove, ante 1948, l’incidenza della proprietà contadina sulla superficie complessiva era minima ».

    Anche nelle colline di San Gimignano è frequente l’abbandono dei poderi a mezzadria.

    L’emigrazione verso l’estero

    La storia dell’emigrazione toscana verso l’estero risale assai indietro nel tempo: mentre gli spostamenti stagionali interni di pastori e di contadini tra la montagna e la pianura esistevano già nel Medio Evo, nel Seicento e più largamente nel Settecento si ebbe una emigrazione verso altre regioni italiane e verso l’estero, più che altro temporanea, di boscaioli e di braccianti agricoli. Ma non se ne hanno notizie precise sino all’unità d’Italia, o meglio sino al 1876, quando si iniziò un rilevamento annuale dei principali movimenti migratori.

    E noto che l’emigrazione verso paesi lontani, pur essendo un fatto frequente nei paesi più poveri, che pone rimedio alle scarse risorse dell’ambiente ed all’eccessiva natalità che caratterizza, o meglio caratterizzava un tempo i ceti rurali, non si realizza se non intervengono particolari condizioni, se non si aprono delle possibilità e non si crea un filone in cui l’emigrante possa incanalarsi: così in Toscana, ancora un secolo fa, malgrado la povertà di molte zone, l’emigrazione non era un fatto di diffusione generale neppure nella montagna, bensì era limitata ad alcune parti solo della regione, le province cioè di Massa e Carrara e di Lucca (Garfagnana e Lunigiana).

    Allora i piccoli proprietari montani, impossibilitati a vivere nei loro terreni polverizzati dalle divisioni ereditarie, emigravano già in discreto numero come boscaioli e contadini in Corsica, in Francia, più tardi nell’America settentrionale e in quella meridionale, e come sterratori e braccianti agricoli in diversi paesi europei (Germania, Austria, Francia, anche Inghilterra) per periodi in genere non molto lunghi. La sola provincia di Massa e Carrara dava, all’unità d’Italia, 1146 emigranti su 1475 di tutta la Toscana, e quella di Lucca oltre 190.

    Nel 1876 l’emigrazione era complessivamente assai aumentata (6500 emigranti, dei quali solo 1380 permanenti), ma le due province conservavano la stessa percentuale sul movimento della regione. Questo comincia ad estendersi largamente alle altre province solo nell’ultimo decennio del secolo ed appena nel Novecento gli spostamenti delle varie province superano quello della montagna lucchese e carrarese. Particolare contributo è dato dalla Romagna Toscana e dall’alto Mugello, dalla montagna Pistoiese e da quella Aretina, ma la emigrazione si estende presto anche alle pianure del Valdarno e della Lucchesia, oltre che ad alcune parti della Toscana meridionale: il processo di sviluppo industriale e commerciale che farà delle pianure aree di forte attrazione per gli emigranti della regione stessa e di altre parti d’Italia, comincia in modo rilevante solo dopo la prima guerra mondiale.

    Nell’insieme l’emigrazione toscana passò da 10.500 emigranti nel 1900 ad una punta massima di 44.000 nel 1913. La ripresa dopo la stasi della prima guerra mondiale non portò più alle cifre prebelliche e raggiunse un massimo di 22.000 emigranti nel 1924.

    Le difficoltà di emigrare all’estero, specie nei paesi oltre oceano, dove gli Stati Uniti dettero il primo esempio di forti restrizioni, limitò in sèguito gli spostamenti definitivi, mentre rimasero sempre più importanti quelli a carattere stagionale, tuttora abbastanza vivaci.

    L’emigrazione, come sempre accade, avveniva ed avviene anche in Toscana dalle regioni dove la possibilità di istruzione è molto poca per la miseria e per la mancanza di scuole, cosicché chi lascia il paese è quasi sempre un lavorante non qualificato, pronto a qualsiasi lavoro pur di sopravvivere. Gli emigranti del passato erano in gran parte addirittura analfabeti e contribuivano così a diffondere l’impressione di una Toscana povera ed arretrata. Nè, peraltro, anche oggi la situazione dell’istruzione professionale degli emigranti è molto migliorata.

    Ciò malgrado, gli abitanti di alcune parti della regione hanno saputo crearsi una propria tradizione di mestiere, che ha valso loro un successo economico e morale non trascurabile. Basti ricordare, come esempi più caratteristici, quelli dei librai di Pontremoli e dei figurinai di Lucca.

    La Lunigiana da Castelnuovo di Magra.

    I librai di Pontremoli costituiscono un tipico esempio di emigrazione ambulante stagionale, trasformatosi poi in definitiva. Come già scrivemmo « il comune di Pontremoli si estende dal fondovalle del Magra sino al crinale appenninico e comprende zone di collina e di montagna dove, da un paio di secoli almeno, il popolamento è divenuto sproporzionato alle risorse locali. Ad un’agricoltura sempre più modesta, oltre i 500 metri, si unisce infatti uno scarso allevamento di bestiame ed un limitato sfruttamento del bosco ceduo. Qualunque mestiere, anche il più umile, diviene dunque buono per il montanaro, pur di lasciare il proprio paese e scendere verso le pianure. Così all’inizio del secolo scorso erano già assai sviluppate alcune correnti di emigrazione stagionale: mentre i più scendevano a fare i muratori ed i mereiai, altri, specie dai villaggi di Montereggi e di Parana, cominciarono a vendere coltelli e pietre per affilare. Come dalle pietre si sia passati ai libri è difficile dire, ma già nel 1859 si avevano delle patenti rilasciate a “ venditori di pietre e di libri I primi librai pontremolesi partivano dunque con una cesta o un sacco sulle spalle ed andavano a vendere generi diversi, rivolgendosi tuttavia agli stessi acquirenti. Si fermavano la sera nelle case di campagna ed intrattenevano i contadini con la lettura di qualche brano di opere popolari come I Reali di Francia e il Guerrin Meschino, e riuscivano così a vendere e la pietra e il libro.

    «Ai primi altri ne seguirono, sempre negli stessi paesi, spesso parenti tra loro. Taluno, lasciato il commercio girovago aprì una bancarella in qualche città, soprattutto dell’Italia settentrionale. La bancarella segnò il successo dei librai della Luni-giana: libri rimasti giacenti nei magazzini dei rivenditori, vecchie opere scovate in librerie private, romanzi di moda (durante il Risorgimento anche qualche libro patriottico), furono attraverso le bancarelle venduti ed esauriti. Talora semi-analfabeta, il libraio pontremolese seppe tuttavia indovinare i desideri del pubblico che non frequentava le librerie, in un momento in cui la lettura diveniva patrimonio di tutti gli strati sociali. Lasciata la cesta ed il carretto numerosi emigranti riuscirono così ad aprire negozi, a fondare persino case editrici e non solo in Italia, ma anche in Spagna, in Francia, neH’America del Sud». A ricordare la tradizione pontremolese nel commercio librario è stato istituito, com’è noto, il « Premio Bancarella », per premiare il libro di maggior successo dell’anno.

    Altra caratteristica forma di emigrazione è quella dei figurinai o figuristi, come si dice sul posto, di Tereglio e di altri paesi della Lucchesia. Qui era molto antico l’uso di lavorare lo stucco, soprattutto nei monasteri, quando nel Settecento si diffuse l’artigianato delle statuette sacre e profane costruite col gesso o con la cera: tra i soggetti più comuni e di più facile smercio erano le riproduzioni di statue celebri come la Venere dei Medici, l’Apollo di Belvedere, le figure del Canova, oppure Madonne e Santi.

    In un primo tempo le statuette erano vendute nella vicina pianura ed entravano ad ornare le case dei contadini e le chiese della campagna lucchese. Poi alcuni artigiani più intraprendenti si recarono in città lontane rimanendo fuori dapprima anche alcune settimane e quindi vari mesi. Il successo dei primi stimolò naturalmente gli altri: si ebbe così una emigrazione stagionale in Germania, in Francia, in Inghilterra, in Spagna, in Austria, un po’ in tutta l’Europa e, col XIX secolo, anche nell’America settentrionale e in Argentina. I figuristi partivano spesso in gruppi di quattro o cinque, accompagnati talora da giovanissimi garzoni; prendevano in affitto un locale come deposito e andavano in giro per le strade a offrire le loro statuette ai passanti. Molto si è scritto di questi modesti venditori ambulanti, pronti ad affrontare disagi e miseria, mal vestiti e qualche volta anche mal nutriti, per le vie di New York, di Filadelfia, di Londra. Alcuni restavano fuori anche due e più anni, altri non sono più tornati al loro paese nativo avendo trovato altre forme di lavoro. Ma si è sempre trattato di una emigrazione modesta, che non ha consentito grandi fortune a nessuno e che era già scomparsa ormai ai tempi della prima guerra mondiale.