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La Calabria vista dagli italiani

    La Calabria nella vita italiana

    Per chi guardi le cose da di fuori la Calabria è solo una delle più grame — e secondo le statistiche anzi la più misera — delle regioni italiane, con gli estremi regionali dell’analfabetismo e della natalità, con la maggior depressione regionale degli introiti prò capite, con il più basso numero medio di addetti per ogni unità operativa industriale o commerciale (2,5 nel 1961 contro una media nazionale di 4), con il più basso numero di letti negli istituti di cura sul totale della popolazione (3,8 per ogni mille persone nel 1961 contro una media nazionale del 9,6), con i più umili consumi di generi alimentari di qualità, con una delle più forti correnti regionali di emigrazione dal 1880 in qua, con i frequenti ritorni delle calamità naturali — sismi, frane, alluvioni — la cui iattura più di una volta ha infrenato o sviato o troncato, dopo qualche periodo di calma operosa, le iniziative e gli sforzi tesi a togliere dalla oscurità e dalla inopia la vita della regione. Non v’è bisogno di caricare di enfasi la realtà di questi dati, lo squallore di molte centinaia di villaggi e casali di questa penisola, costruita da una catena di elevate dorsali o di bastionate cupole, ove l’asperità del monte domina ovunque e la frantumazione paesistica isola e intorpida: di una regione che in tale stato di prostrazione è per il motivo che l’uomo non ha finora avuto facoltà di dominare o regolare una natura — voglio dire le frane frequentissime e gravi, le fiumare distruggenti in inverno, l’energia del rilievo a cui non è pari se non l’alpina, le aridità brucianti delle piane rivierasche in estate, la cretosità deserta delle ondulazioni terziarie — una natura che in verità si può padroneggiare, ma con fatiche più notevoli, cioè investimenti finanziari per lo meno eguali o con probabilità più elevati, e con tecnologie così progredite come quelle che da alquanti secoli l’uomo ha usato per conquistare le regioni d’Italia che ora figurano tra le più civili e fiorenti. Vero è che nei secoli a noi più vicini, che videro la maggior profusione di tali fatiche e una miglior concentrazione di istituzioni e discipline per coordinare le vocazioni della natura, o disciplinare le manifestazioni della natura che intralciano i nostri disegni, la Calabria non ha tenuto mai — se non forse in età napoleonica — nei sistemi politici a cui per mera inerzia è venuta a far parte, un ruolo o una posizione tali che incoraggiassero a riversare in essa energie provenienti dal di fuori o a organizzar in modo più razionale quelle di cui la regione disponeva.

    I mutevoli valori economico-politici della regione negli ultimi secoli

    Nel reame di Napoli la penisola bruzia figurava come una specie di fondo di calza poco bene accessibile, con una popolazione povera, rude e riottosa, e con risorse diverse ma discrete solo per qualche elemento (oli e sete, e un po’ meno lane e vini, cereali e legumi) che potevano venire risucchiate, come da una fila di minuscole ventose, dai numerosi porticciuoli scaglionati lungo i suoi 780 km. di coste. Ma la regione rimaneva tagliata fuori dai principali traffici del reame, che per la via di mare — più facile e spedita della via di terra — tenevano una linea dritta da Napoli o da Salerno per congiungersi con Messina o con Palermo: seguivano cioè la corda e sfuggivano l’arco, costruito da monti interminabili e da valli impervie, di cui la penisola bruzia formava il culmine.

    Un valore umano alquanto diverso ebbe la regione dopo la catastrofe del 1783, quando l’eco di quelle sciagure provocò negli ambienti di cultura d’Italia in genere —    e di Napoli in particolare — due moti di ispirazione decisamente illuminista, come lo studio razionale delle condizioni naturali e una prima meditazione sulle condizioni sociali della regione: linee di risveglio che la gestione napoleonica si sforzerà di alimentare, data anche la particolare funzione che fra il 1806 e il 1814 la Calabria rivestì topograficamente nel sistema napoleonico: e cioè non più quella di regione interna di uno Stato, ma di regione estrema, ai confini: e per di più confini nevralgici, a portata di fuoco del nemico. Ma le condizioni sostanzialmente militari — in questa regione —    dei governi napoleonici e il loro breve periodo di operosità avevano poi negato la maturazione di quel singolare ruolo. E neanche l’unificazione nazionale cinquanta anni dopo assegnò alla Calabria una parte migliore: a dire la verità nel giovane edi-fizio del regno unito il valore della Calabria si trovò dopo il 1860 frequentemente più deprezzato di quanto era stato prima: e ciò in special modo fra il 1862 e il 1870 (azioni militari contro la protesta contadina — a cui si è dato impropriamente il nome di banditismo — e crollo della industria della seta) e dopo il 1885 (crisi dei vini e poi degli oli). E quando fra il 1875 e il 1895, con l’apertura delle due linee ferroviarie rivierasche la regione fu saldata al reticolo delle comunicazioni nazionali più rapide —  cioè quelle dei treni — e grazie ai treni l’inarcatura continentale fra Napoli e la Sicilia rialzò un poco (ma solo sui margini litorali, ove sfila la linea ferroviaria) il suo valore economico a scapito dei traffici per mare, la Calabria diventò regione di transito. Ma niente più : o in ogni caso — col favore dei treni — regione di esodi. E regione di transito per la Sicilia rimane fino a oggi: transito di treni e di autoveicoli (ma i treni più veloci vi si fermano in pochissimi punti). E ciò fino a quando il treno sarà per i traffici interregionali delle persone più conveniente degli aerei, o di servizi di navigazione che in realtà sono divenuti ora più rapidi e comodi (fra Napoli e Palermo 10 ore e mezza di nave, contro per lo meno 12 di «freccia» ferroviaria) di quel che erano fino a cinque o sei anni fa. E fino a quando la dislocazione degli autoveicoli non troverà miglior cosa far uso di navi speciali: i cui regolari servizi fra Napoli e Messina furono già sperimentati con buon risultato nel ’58. C’è anche da chiedere se mediante le linee di aeroplano e di nave fra Napoli e Palermo o fra Napoli e la conurbazione dello Stretto, non si torni a una rivalutazione di quella che ho chiamato la corda dell’marcatura continentale. E nei lustri prossimi, la conservazione della funzione di transito —  in una parola dell’unica funzione vitale — che la Calabria ha tenuto dal 1880 in qua, è probabile che dipenda principalmente dalla funzionalità della grande carrozzabile peninsulare « del sole » — la cui costruzione è stata da poco iniziata a sud di Salerno — e dalla edificazione di un ponte che elimini gli ostacoli naturali e i ritardi orari dello Stretto.

    Vedi Anche:  Corsi d'acqua e fiumi

    Spezzano sul fianco occidentale della Sila (800 m. di altitudine) fra castagneti in alto e colture promiscue verso la valle del Crati.

    Del resto, da quella funzione di transito la Calabria ha avuto giovamento fino a ora in misura un po’ ritenuta. Non pare che sian stati unicamente i transiti a provocare in Calabria quel che, da cinquanta anni in qua, chiunque ha studiato la regione ha rilevato: e cioè, con alternazione di pause e con ispirazioni di volta in volta diverse, l’aumento — pur debole e inadeguato, ma significativo, in relazione a prima — degli investimenti in opere tese a migliorare la vita della sua popolazione. Neanche si può dire che la ragione di quegli investimenti stia in un rialzo — che in nessun modo vi fu — di valori economici o politici della Calabria nella topografia nazionale (la Sicilia è stata ritenuta per vari lustri e specialmente fra il 19io e il 1942 una base di lancio verso l’Africa, e la Puglia, dal 1930 in avanti, il molo verso il Levante: ma di simili vanità la Calabria patì poco o niente, anche per il naturale riserbo e sobrietà della sua popolazione). In realtà l’ispirazione di quel primo nebuloso e molto disordinato fervore di iniziative, fu nei ridestati umori di socialità che dagli albori del secolo iniziarono a radiarsi per l’Italia e a dare i loro frutti nei paesi più poveri: cioè in primo luogo nei paesi del Mezzogiorno ove — per la debilitazione delle popolazioni e la vecchiezza di qualunque tecnologia — da una oculata opera di riforma delle strutture non si potevano ricavare lì per lì reali e positivi benefici per la vita nazionale, ma i soli risultati conseguibili erano l’agevolazione o l’impulso a edificare migliori forme di operosità regionale. Da qui derivano le inchieste e gli studi di natura sociale: da l’indagine parlamentare del Marenghi, o da quelle private degli scolari di Pasquale Villari e più avanti del Zanotti Bianco, fino a quelle parlamentari svolte tra il 1953 e il 1955 sui riflessi più elementari — povertà e disoccupazione — della depressione economica, e a quella ultimata nel ’59 per iniziativa della Fondazione di Scienze Politiche di Parigi. E dagli stimoli e dalle denunzie contenute in tali opere, così come da una pressione a mano a mano più cosciente e decisa delle forze vive locali, sono originate la legislazione in favore della regione nel 1906 (per quanto così male e parzialmente posta in atto) e la riforma agricola del 1950 (lodabile sicuramente per le sue motivazioni e i suoi fini, anche se discutibile per la sua impostazione aziendale) e la partecipazione della regione ai benefici della Cassa del Mezzogiorno dal 1952 in avanti. La qual rianimazione sociale, unitamente agli investimenti di denaro — deboli agli inizi, ma dal 1950 in qua più rilevanti — che sono stati una sua conseguenza e di cui fruisce ora in special modo l’ambiente rurale con la costruzione di strade e di villaggi, sistemazioni idrauliche e forestali, impianto di qualche industria agricola veramente razionale, prima adozione di fertilizzanti e divulgazione di macchine, creazione di servizi sanitari e di comunicazione prima sconosciuti ecc. ha già dato negli ultimi anni dei risultati discreti: e cioè risvegliato un po’ di energie rimaste fino a ora invischiate in ambienti dominati da vecchissimi istituti e costumi, e indicato più chiaramente lacune e vocazioni: ma questi sono solo frutti iniziali di un’opera breve, in diversi casi non più che sperimentale, che per ora ha migliorato di poco la condizione economica della Calabria.

    Gimigliano sul fianco meridionale della Sila (550 m. di altitudine) ove l’oliveto, rimontato lungo la valle del Corace, lascia il posto al castagneto.

    Oggi: una delle più anemiche regioni d’Italia

    Ai nostri giorni la regione rimane — in questo volume lo si è esaurientemente documentato — una delle più anemiche della nazione e di quelle che sarà meno facile risanare e istradare nel raggio di un progredito mercato come quello che si va costituendo fra i paesi d’Europa: una regione che, pur avendo una configurazione economica decisamente agricola, solo in due produzioni agricole di rilievo supera il 10% del totale nazionale — cioè per le olive con 1/7 e per gli agrumi con 1/5 — e che non dà nel suo insieme più di 3,8% della produzione vendibile della terra in Italia.

    In questa panoramica di Amantea c’è un sunto della storia del popolamento costiero della Calabria. Nel fondo e in alto i resti informi del castello. Al loro piede (su di un terrazzo pleistocenico) l’abitato annucleatosi fra il medioevo e la metà del secolo scorso. In basso, intorno a una villa baronale di età spagnuola, col suo giardino chiuso, l’abitato nuovo formatosi negli ultimi cento anni, che si dirama poi fino alla stazione ferroviaria. Questo fenomeno di scorrimento urbanistico verso il mare fu presentito già da Leandro Alberti, che aveva visitato la riviera occidentale durante la prima metà del secolo XVI (Descrittione di tutta Italia, Bologna 1550). In questa zona egli aveva rilevato frequenti dimore signorili circondate da giardini cintati, con colture di pregio (cfr. pp. 181 r. – 182 v. e 188 v. – 190 r.): « dilicature » che erano proprietà di « gentilhuomini napolitani » — gente cioè forestiera alla vita del Bruzio, di cui spremeva però le risorse — e che egli contrapponeva alla rozzezza delle miserevoli popolazioni locali (cfr. inoltre a pp. 185 v. – 186 r.).

    Però il quadro che la informazione delle statistiche e anche una visita ai paesi interni e ai comuni ritagliati fra i monti consente di ricavare, nasconde un elemento che potrebbe domani avere un valore riguardevole per la vita della regione e cioè in essa sprigionare un’energia feconda. Voglio dire che la Calabria è una di quelle regioni d’Italia che negli ultimi lustri ha rivelato nella sua popolazione un più forte dinamismo di dislocazione: dinamismo agli inizi alquanto fatalistico e non autonomo, come quello delle migliaia di persone (cioè intorno a 827.000, pari a 12% del totale nazionale: una delle aliquote regionali più elevate) partite per l’America fra il 1875 e il 1915 a conquistare una vita migliore. O dinamismo di conscia evasione, che è il modo per conseguire, fuori di un ambiente paesano apatico oscuro uniforme, una migliore qualificazione professionale o partecipare positivamente a una società aperta evoluta mobile: come è il caso di quanti dal Bruzio sono emigrati dopo il 1930, o a persone isolate o a gruppi minuscoli tirandosi su a catena famigliari e paesani, verso i ministeri romani o verso le conurbazioni operose del Nord (per lo meno 400 migliaia negli ultimi trentanni: che sono fra le quantità più salienti di migrazione interna in Italia). Dinamismo di interni spostamenti regionali, come è — per richiamo anche di quei transiti fra penisola e Sicilia che si svolgono su le riviere di Calabria dal 1880 in qua — il deflusso dai monti verso le piane rivierasche riempite, specialmente dopo il 1920, di agricoltori, imprenditori, mano operaia, addetti ai traffici ecc., con uno degli aumenti di carico umano fra i più notevoli in Italia e la nascita di nuovi centri rurali e stazioni turistiche. Fenomeno quest’ultimo di capovolgimento negli insediamenti, che si era iniziato qua e là da almeno due secoli, ma è divenuto più comune e appariscente — per portata e riflessi — dopo l’unificazione nazionale, e ha creato su le cimose litorali una frangia di colture progredite. Tale capovolgimento ha segnato la fine della lunga storia di risalita a poco a poco verso i monti, e di chiusura fra questi, della civiltà regionale — una storia che era stata la conseguenza del declino degli ellenici e quindi del predominare, nel popolamento della penisola, dei bruzi —: si è venuta in tal modo delineando una storia nuova di ripotenziamento umano delle piane rivierasche e dei principali fondi valle. Ma così il fenomeno di dinamismo interno, che nei limiti della regione vien gradualmente ricostituendo ora con le piantate di agrumi, di viti, di pomodori, di bietole, di generi da orto ecc. il primato della fascia litorale — come era nell’antichità — vuol dare una dimostrazione che la rinascita economica della Calabria può conseguirsi prima di ogni cosa con la contrazione areale, con il perfezionamento e con l’industrializzarsi della sua agricoltura. Però è già un ben augurale sintomo il fenomeno per cui da cinque o sei anni almeno si è rovesciato in Calabria il primato che l’agricoltura aveva fino a ora tenuto nella formazione del reddito regionale. Le produzioni della terra che fino al 1950 largivano la metà per lo meno di quel reddito — e abitualmente anzi una misura maggiore — e negli anni seguenti in genere ne fornivano più di 2/5, dopo il 1957 si sono depresse a 1/3 e appaiono ora superate dalle produzioni della industria e dei servizi terziari, che partecipano ora a quella formazione per più di 42%. Il fenomeno naturalmente riverbera un noto corso del sistema economico nazionale negli ultimi quindici anni: ma lo riverbera con una dimensione molto più marcata che su piano nazionale (fra il 1951 e il 1961 a una diminuzione della partecipazione agricola per 9 punti sul totale nazionale fa eco in Calabria una diminuzione ben maggiore: cioè di più di 18 punti, e a un aumento sul totale nazionale della partecipazione industriale e terziaria per 4 punti, la Calabria riscontra 12 punti di aumento). In spostamenti di valore così rapidi e forti — per quanto, in verità, meno regolari e stabili — è da vedere il segno dei travagli e delle modificazioni in atto.

    Vedi Anche:  La storia della Calabria

    Una strada di San Giovanni in Fiore.

    Un giovane, ma poco coordinato, dinamismo interno

    La rivalutazione della costa, per merito solo inizialmente di un transito che riguarda poco la regione, ma ad opera in special modo di ripopolamenti svolti da comunità umane piene di una vergine vitalità, potrebbe domani avere rilevanti riflessi pure nel telaio urbanistico della Calabria. Le sue estreme rive lungo lo Stretto sono state rapidamente inglobate in una già ben formata conurbazione e su le rive del Marchesato vien a maturazione una città: Crotone. E naturale — in una regione che rimase arroccata fra i monti per una sequenza così lunga di secoli — che i ruoli di « città » sian tenuti ora pure da centri della zona interna : ma per riassumere in termini nuovi quel ruolo, che in realtà avevano perduto per diversi secoli, Cosenza si è da cinquanta anni congiunta fortemente con la parte media del Vallo — che per la bonificazione e i popolamenti partecipa del medesimo fenomeno dei litorali — e in ultimo ha legato a sè anche la piana di Sibari, e Catanzaro fino dal 1880 si è rivolta verso la riviera, a cui ora sta in qualche modo unendosi urbanisticamente. Forse non è un’indicazione chiara di dinamismo, che la Calabria, nei suoi duri sforzi di rinascita dal 1900 a noi, sia giunta a far riconquistare, con dimensione aggiornata, il valore di « città » a dei centri ove quel valore era svanito ?

    Potremmo dire, in ultima analisi, che il volto umano della Calabria, nei suoi segni più forti o più comuni, è ora poco diverso da come era quando il Franchetti lo descriveva nel 1875 agli italiani del Nord: imagine di povertà. Ma il suo spirito è animato oggi — per lo meno in diverse zone — da vigore e iniziativa, che però non si palesano facilmente (o si mostrano solo a un esame ponderato e paziente di alcune giovani strutture) poiché rimasero fino a noi poco coordinati, non coerenti e non fusi, e a volte impigliati in meschine rivalità. (Particolarismo e frazionismo sono invero il morbo che più insidia la rinascita della regione come si è avuto modo di sperimentare nel 1961 quando vi fu decisa l’istituzione di una università di studi: istituzione fino ad ora abortita per le rivalità fra i tre principali centri). Ma tale insieme di schietta, vecchissima povertà e di interna energia, non è contraddizione inestricabile. In Calabria solo ora — da cinquanta anni a dire molto — si va costituendo una società moderna: si va costituendo con sobrietà, costanza e acume riflessivo e lineari atteggiamenti fra le popolazioni della parte settentrionale della regione, e con maggior mobilità di spirito, più rapida interpretazione degli eventi, un aperto gusto per i benefici materiali, nella parte meridionale. La contraddizione di povertà e di energia perciò si risolve in termini di crisi di gestazione e di formazione di un tipo sociale che la Calabria non ha conosciuto fino agli inizi del nostro secolo. Lo ha scritto lucidamente Alvaro nel 1950: « fino a quando la Calabria potè sbrigare le sue faccende da sè, in una vita patriarcale, di sè fece parlare poco. Era atteggiata in una società di tipo antico, gerarchica e religiosa. Fino a molto tardi la società era rimasta quella antica, distribuita in due sole categorie: [qua] i borghesi, [là] i pastori e i contadini. I mestieri servili erano irrilevanti, il commercio era lasciato quasi solamente ai forestieri ». E la fase moderna della Calabria — quella che il nord Italia aveva iniziato cinque o sei secoli fa — si aprì solo con l’ingresso della regione in un’orbita nazionale: un ingresso la cui data non coincide con la spedizione di Garibaldi ma con le esperienze della emigrazione americana, dei servizi militari svolti al Nord, di un mercato nazionale ampliato fino a qua. L’inizio di quella fase perciò non si ebbe quando, dopo il 1860 « alla vecchia borghesia latifondista e feudale si era sostituita la borghesia venuta su con la rivoluzione del Risorgimento, i primi professionisti o gli abili profittatori pieni di iniziativa: [una] nuova borghesia terriera che aveva saputo profittare del parapiglia fra la rivoluzione patriottica, la liquidazione dei beni ecclesiastici, la distribuzione delle terre demaniali [ma aveva poco] denaro per mandare avanti le terre conquistate e bonificarle, paga di ciò che potevano rendere, mal ridotte e mal custodite ». La società nuova in realtà è nata solo dopo il 1900, coi peculi degli emigrati che avevano « fatto sorgere i paesi della marina, con le case sul modello delle case americane — quelle a un piano, col balconcino di ferro al centro — e addentato il latifondo, e creata la piccola proprietà». Ed è stata irrobustita « dai reduci della prima guerra mondiale abituati ad avere sotto le armi il pane e la minestra due volte al giorno, cosa per loro nuovissima, e abituati con gli ufficiali di complemento (quelli della prima guerra) che provenivano dalla classe media e dalla borghesia di allora, a un tipo di gerarchia familiare in cui la dipendenza non spegneva la considerazione della dignità umana. Questi reduci tornavano con la testimonianza di un’altra vita ». E nuovi elementi a tale tipo sociale ha portato la crisi dell’ultima guerra con la formazione « del piccolo mercante che, venuto da un popolo in disgregazione, ha tentato i commerci e le piccole industrie. Il fenomeno della borsa nera in Calabria è stato uno dei fatti sociali più importanti che si sian prodotti in quella società. Buona parte degli arricchiti della borsa nera, i piccoli speculatori fortunati che passavano notti in treno viaggiando da capo delle Armi a Genova e a Milano, portando olio e riportando tessuti, scarpe, medicinali, manufatti, sono i pionieri di un atteggiamento moderno in Calabria. Essi hanno rotto col vecchio pregiudizio della laurea o del diploma, rifugio di una classe di piccoli borghesi spostati e aspiranti a vivere delle necessità insopprimibili dei poveri — giustizia, burocrazia, ospedale — o a vivere alle spalle dello Stato » (Il Ponte, 1950, pp. 970-972).

    Vedi Anche:  Distribuzione, emigrazione e storia della popolazione

    Una strada di Guardia Piemontese.

    Sono stati rivolgimenti quasi inavvertibili e la cui forza si è rivelata solo quando fu animata dal fermento di eventi esterni, cioè nazionali. Però se così tardi si è venuta delineando in Calabria la costituzione di una società moderna, la ragione di ciò non è da vedere esclusivamente nella sciagura di dominazioni militari come la romana o fiscali come la bizantina o baronali come la ispanica. Questa è sicuramente la ragione principale : non la sola però. In realtà la natura della Calabria è una di quelle che è stato più duro fino a ora, e anche domani sarà meno agevole assoggettare o imbrigliare. A parte la più progredita cultura e la già fiorente vita economica di quei paesi (il problema è emerso più di una volta nel corso del volume) non era più facile plasmare in termini umani, organizzar a misure umane i bacini e i tondeggianti rilievi della Toscana interna e anche — opera ultimata solo ai nostri giorni — la zona paludosa della pianura settentrionale fra i vari rami deltizi del Po e le lagune? Invece niente di simile c’era da sperare là ove su di una natura — come quella bruzia— indocile e onerosa ai disegni umani si è impiantato per quindici secoli per lo meno (con rare e brevi fasi di risveglio e di qualche efficienza) quel che di più opaco, selvatico e lacrimevole vi è stato fra i governi d’Italia. E che meraviglia quindi se fra una natura così poderosa e la desolazione sociale dei loro giorni, due fra i più grandi spiriti di Calabria in quei secoli, l’abate Gioachino e il Campanella, risolsero i loro disegni umani in allucinanti utopie?

    Vecchio e nuovo in Calabria: il quartiere di Crotone che guarda verso il porto aragonese.

    Ma nel secolo nostro, e da quindici anni specialmente, la Calabria è stata fra le migliori palestre di realismo in Italia, per scrittori ed economisti e cultori di studi sociali e operatori sindacali. E se vi è attualmente in Calabria un comune denominatore fra le correnti umane aperte a novazioni radicali, operose a divulgare una vitalità moderna fra le maglie già meno tenaci e strette di una società « paesana » patriarcale incupita nella sua gretta conservazione e già alquanto indebolita, questo è un franco, implacabile realismo. Che è in Calabria oggi l’anima delle generazioni più giovani.