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Val Tiberina e Gubbio

    Le subregioni dell’Umbria settentrionale

    Dopo l’esame dei caratteri generali della regione, delle sue vicende attraverso il tempo e degli aspetti salienti delle condizioni fisiche, umane ed economiche dell’ambiente, si passerà nelle pagine che seguono alla descrizione delle singole parti nelle quali la regione stessa si può dividere e che si differenziano sia per le varie condizioni naturali sia, soprattutto, per l’impronta delle vicende passate e dell’attività che l’uomo, in epoche remote o recenti, vi ha esercitato.

    Seguiremo pertanto, in questo viaggio attraverso l’Umbria, la suddivisione delle minori regioni tradizionali che, come già si è detto, hanno conservato nel tempo una particolare fisionomia e che rappresentano ancor oggi una realtà viva nella coscienza popolare.

    La val Tiberina

    L’ampia vallata che il Tevere percorre, subito dopo essere uscito dalle gole montane dell’Appennino, passando dalla Toscana all’Umbria, prende il nome di vai Tiberina, e coincide per gran parte con il territorio dell’antico distretto di Città di Castello, posto ai confini dello Stato della Chiesa col Granducato.

    E una ridente e fertile conca, ricca di acque che scendono dai circostanti dossi appenninici, solcata dal corso serpeggiante del fiume, che si snoda placido e ancora di modesta larghezza tra due file di alti pioppi.

    Un aspetto della val Tiberina presso Città di Castello.

    La campagna è intensamente coltivata a seminativi, alternati a radi filari di vigneto che si appoggiano in prevalenza a sostegni vivi. Acquista qui un’importanza particolare la coltura del tabacco, diffuso già agli inizi del secolo scorso, quando il privilegio di poter coltivare questa pianta veniva riconosciuto al territorio di Cospaia dai governi Pontificio e Toscano, che si erano spartito il dominio della minuscola repubblica. La tabacchicoltura, estesa oggi in tutta la parte umbra della vai Tiberina, vi trova condizioni favorevoli sia nei terreni irrigui della piana, sia nel clima subcontinentale a elevate temperature estive. La coltivazione sotto garza, recentemente introdotta, consente di produrre anche varietà tropicali e dà un’impronta caratteristica al paesaggio, con i lunghi rettangoli bianchi che si inseriscono nel verde della campagna. Un’altra nota tipica è data dagli essiccatoi in muratura, che spiccano per la loro altezza e per i numerosi camini accanto ad ogni casa rurale.

    Sulle pendici collinari domina la vite, soprattutto sul versante sinistro della valle, più ampio e dolcemente inclinato; e si spinge fino a 600 m. d’altezza, favorita dalla buona insolazione dei terreni a solatìo e dall’assenza delle nebbie autunno-invernali che sono invece frequenti in piano.

    Più in alto sono i fitti boschi di querce, alternati a qualche castagneto, qua e là ancora interrotti dai coltivi dove il pendio si fa meno ripido.

    Tra la verde corona delle montagne, piccoli borghi e gruppi di case appaiono sui poggi e sui dossi che si staccano dalla catena appenninica. Sulle prime ondulazioni collinari e nel fondovalle sono numerose le case isolate o riunite in piccoli gruppi, specie ai margini del piano, sui lembi di bassi terrazzi fluviali, che offrono maggiore sicurezza contro il pericolo di inondazioni durante le piene autunnali dell’alto Tevere.

    In posizione marginale, tutti sulla sponda sinistra del fiume, sorgono anche i maggiori centri abitati, che sono oggi essenzialmente modesti borghi agricoli, animati da qualche attività industriale.

    Tra essi emerge Città di Castello, l’antico Tifernum Tiberinum, già colonia e poi municipio romano, che ebbe un periodo di notevole prosperità ai tempi di Traiano: fu sotto la protezione di Plinio il Giovane, che vi eresse un tempio a sue spese e possedeva nelle campagne della vai Tiberina una villa i cui resti si possono forse individuare nella località detta Colle Plinio, a una decina di chilometri a nord della città, dove si sono trovati ruderi di grosse mura e frammenti di marmi e di mosaici.

    Distrutta durante la guerra greco-gotica, la città risorse poi, secondo la tradizione, nel VI secolo, ad opera del vescovo Florido, e mutò il nome primitivo in quello di Castrum Felicitatis, che si trasformò, dopo il Mille, in Civitas Castelli. Dal periodo comunale la sua storia seguì alterne vicende; la città riuscì a mantenersi per qualche tempo libera sotto i consoli e i podestà, ma in seguito fu costretta a sottomettersi ora alla Chiesa ora all’Impero, ora ai Perugini, ora a Firenze.

    Vigneti sulle colline a sud di Umbèrtide.

    Nella seconda metà del ’400 vi si stabilì la signoria dei Vitelli, che la governarono anche durante il ’500, sebbene, dopo il breve periodo della dominazione di Cesare Borgia, Città di Castello, con il suo territorio, fosse passata definitivamente allo Stato Pontificio.

    La città è ancora recinta in gran parte dalle mura cinquecentesche, talvolta doppie e difese da fossati, nelle quali si aprono maestose porte. Palazzi e chiese dell’età medioevale, specie del Trecento e del Quattrocento, restano a testimonianza del periodo di maggiore floridezza del centro:  il Palazzo del Governo, già del Podestà, che dell’edificio originario conserva la facciata settentrionale, in pietra, di austere forme gotiche; il Palazzo dei Priori, attribuito, come il precedente, ad Angelo da Orvieto, il cui nome è ricordato in un’iscrizione che orna l’architrave della porta principale: vi si trovano una raccolta di lapidi romane e l’Archivio comunale, che racchiude documenti importanti per la storia locale e la serie degli Annali del comune, a partire dall’anno 1337.

    Notevoli sono pure alcuni palazzi che appartennero alle famiglie patrizie dei Bufa-liniedei Vitelli, tra i quali il Palazzo Vitelli alla Cannoniera, che Alessandro Vitelli fece costruire nella prima metà del Cinquecento da Antonio da Sangallo il Giovane, Pier Francesco da Viterbo e Giorgio Vasari, e nel quale oggi hanno sede la Biblioteca comunale, ricca di preziosi incunaboli, e la Pinacoteca, che raccoglie alcune delle numerose opere d’arte eseguite a Città di Castello da insigni maestri chiamativi dal mecenatismo dei Vitelli. Nella seconda metà del Quattrocento vi lavorarono infatti, tra gli altri, Andrea e Giovanni della Robbia e Luca Signorelli (del quale si conserva qui il Martirio di San Sebastiano); e sull’inizio del Cinquecento Raffaello vi eseguì le prime opere, tra le quali il famoso Sposalizio della Vergine, già nella chiesa di San Francesco fino al 1798 ed ora a Brera (del grande pittore è rimasto nella Pinacoteca di Città di Castello solo uno stendardo).

    Città di Castello: piazza Matteotti, centro della vita cittadina

    Città di Castello: Palazzo dei Priori, ora Comunale.

    Tra le chiese, è da ricordare il Duomo (dedicato a San Florido, patrono della città), la cui più antica costruzione risale forse al VI secolo, e che fu poi riedificato nel secolo XI, e ancora restaurato e rinnovato parzialmente nel Trecento e nei secoli successivi. Caratteristico ne è il rozzo campanile a pianta circolare, del Duecento; e al rifacimento trecentesco appartiene il bel portale gotico, ornato di rilievi e di colonne tortili. Nel ricco Tesoro del Duomo si ammirano, tra l’altro, un Paliotto in argento sbalzato e dorato, prezioso lavoro di oreficeria del XII secolo, che, secondo la tradizione sarebbe stato donato da Celestino II, e il Tesoro di Canoscio, raccolta di vasi eucaristici in argento del VI secolo, trovati casualmente presso il Santuario omonimo.

    Delle numerose altre chiese, che risalgono in gran parte ai secoli XIV e XV, presentano ancora particolare interesse quella di San Domenico, grandiosa costruzione gotica, con un bel portale ogivale, e quella di Santa Maria Maggiore, in cui sono resti di affreschi del Quattrocento.

    Città di Castello conserva in gran parte l’aspetto dell’antico borgo: la pianta, entro il tracciato delle mura, è grossolanamente rettangolare, allungata da nord a sud lungo l’asse della strada di vai Tiberina, e si articola nella parte centrale in un dedalo di vie strette e tortuose, fiancheggiate da costruzioni di due o tre piani, unite spesso dai caratteristici archetti antisismici.

    L’espansione recente dell’abitato si è sviluppata soprattutto nella parte orientale, dove la demolizione di parte delle mura ha consentito l’apertura di due ampi viali, e nuovi quartieri sono sorti sia lungo la strada per Fano, verso le colline, sia in direzione della stazione ferroviaria e fuori Porta Santa Maria, lungo la strada per Perugia. Anche a nord, oltre la Porta San Giacomo, le costruzioni si estendono ai lati della strada nazionale, mentre assai esiguo è l’incremento sugli altri due lati, cioè verso la parte più bassa della piana.

    Vedi Anche:  Agricoltura e allevamento

    San Giustino: il castello Bufalini, del XV secolo.

    Il villaggio di Cospaia, che costituì per quattro secoli una minuscola repubblica indipendente al confine fra lo Stato Pontificio e la Toscana.

    Del resto anche lo sviluppo demografico della città, come di molti altri centri minori dell’Umbria, non è stato molto intenso nell’ultimo secolo, anche se lievemente superiore all’aumento della popolazione nel comune. Modesto centro di poco più di 5000 abitanti nel 1861, Città di Castello non ne contava infatti che 6800 nel 1921; il maggior aumento si è verificato negli ultimi decenni, e nel 1951 si superavano gli 11.000 abitanti.

    Fiorente il movimento commerciale: Città di Castello è il maggior centro di commercio dell’Umbria settentrionale ed ha un importante mercato del bestiame.

    Tra le attività industriali ha il primo posto la lavorazione del tabacco, che fa capo alla grande « Fattoria Autonoma » che sorge presso Porta Santa Maria; vi si affiancano alcune industrie meccaniche, cementifici e fabbriche di laterizi, e il ben noto stabilimento poligrafico, che ha reso famosa la cittadina umbra in tutta Italia.

    Risalendo da Città di Castello la vai Tiberina sulla sinistra del Tevere, s’incontrano alcuni centri minori, quasi tutti ai margini della piana, o lungo la principale via di comunicazione della valle: Selci, Lama, Celalba, e infine San Giustino, borgo di un migliaio di abitanti, presso il confine della regione, al bivio della strada che per la Bocca Trabaría si dirige verso Urbino e Pesaro. Il paese sorse intorno ad un antico castello, conteso da Arezzo, da Sansepolcro, dai Vitelli e dai Papi, e venuto poi in possesso dei Bufalini, che lo fecero trasformare in splendida villa.

    Poco oltre, su un colle, è Cospaia, piccolo paese che conta oggi poco più di 100 abitanti, già capoluogo di una piccola repubblica che per quattro secoli, dal 1440 al 1826, si mantenne indipendente in seguito ad una incerta delimitazione dei confini tra lo Stato Pontificio e il dominio fiorentino.

    Sull’altro lato della valle, domina su un’altura, alla confluenza dei torrenti Cerfone e Sovara, che sboccano poi nel Tevere, l’antico borgo di Citerna, di origini romane, quindi distrutto dalle invasioni barbariche e risorto nel X secolo ; già importante castello (si conservano gli avanzi della rocca medioevale) per la sua posizione, oggi è un piccolo centro di soli 230 abitanti.

    A sud di Città di Castello la vai Tiberina si restringe, per allargarsi subito dopo, alla confluenza del torrente Soara, e si svolge poi alquanto aperta, con un ampio fondo pianeggiante, fino allo sbocco nel Tevere del torrente Nestore, il maggior affluente dell’alto corso del fiume. La piana, intensamente coltivata, è fiancheggiata da amene colline, sulle quali appaiono piccoli agglomerati di case. Su un’altura alla destra del Tevere è il santuario di Canoscio, costruito nella seconda metà del secolo scorso e recentemente restaurato, frequentata meta di pellegrini sia dall’Umbria che dalla Toscana.

    A Montecastelli la valle si chiude tra pendici coperte da fitti querceti sulla destra, e colline ben coltivate sul versante sinistro, poi si amplia nuovamente nella conca di Umbèrtide.

    La città, baluardo della vai Tiberina ai confini settentrionali del dominio perugino, sorge in piano, sulla sinistra del Tevere, che ne lambisce le mura. Una leggenda vuol farne risalire le origini a due secoli avanti l’era volgare, per opera di soldati romani sfuggiti alla strage del Trasimeno. Forse esisteva nella località un villaggio romano, come sembrano provare resti di armi antiche e iscrizioni trovate nelle vicinanze.

    La città medioevale sorse probabilmente nel X secolo per opera di un figlio di Uberto, Marchese di Toscana, ed ebbe il nome di Fratta (Fracta jìliorum Uberti), che le rimase fino al 1862 quando fu mutato in quello attuale.

    Umbèrtide appartenne per lungo tempo a Perugia, che la sottomise nella prima metà del Trecento; nella sua rocca fu prigioniero Braccio Fortebraccio. Dal XV secolo la città fu alternativamente della Chiesa e dei Perugini, e soffrì devastazioni durante le guerre tra i Fiorentini e lo Stato Pontificio, specie nella guerra di Castro, quando Fratta resistè ad oltranza alle truppe di Ferdinando II di Toscana che invadevano lo Stato della Chiesa.

    Umbèrtide è oggi una modesta e tranquilla cittadina, di poco più di 3000 abitanti, a cui dànno vita, oltre l’attività agricola della fertile piana, alcune attività industriali, principalmente la lavorazione del tabacco e l’industria delle ceramiche. Notevole è

    la Rocca, del Trecento, costruita dopo una vittoria sui Perugini, e ben conservata, con torrioni circolari e un’alta torre quadrata; pure del Trecento è la chiesa gotica di San Francesco, con una bella facciata in conci, ornata da un portale ogivale ad arco trilobo; ma il maggior tesoro artistico della città è la celebre Deposizione dalla Croce del Signorelli, che si conserva nella chiesa di Santa Croce.

    All’intorno di Umbèrtide si ergono castelli e rocche medioevali: sulle boscose pendici del fianco destro della valle, tra densi querceti, è il castello di Montalto, che domina da un colle la confluenza del torrente Niccone col Tevere. Resti di bastioni e una torre merlata si trovano presso Romeggio. Sui fianchi del monte Acuto, suggestivo cono ellittico che si eleva a 926 m., sono i ruderi dei castelli di Monteacuto e di Monestèvole.

    Di fronte, sull’altro lato della valle, sorge, ancora ottimamente conservato, il superbo castello di Civitella Ranieri, dalle mura massiccie sormontate da un torrione quadrato e da una torre.

    Poco più a nord, sulla strada che segue la valle del torrente Càrpina, s’incontra l’abitato di Montone, castello nell’alto Medio Evo e in seguito possesso della famiglia Fortebraccio, alleata di Perugia, e patria del famoso condottiero Braccio da Montone.

    Il paese, che è cinto di mura e conserva alcuni ruderi della Rocca, è posto sulle due cime di un colle, dal quale si può ammirare un vasto panorama verso la vai Tiberina e la catena appenninica fino al monte Catria.

    Umbèrtide: piazza San Francesco.

    Segni di un passato anche più remoto sono le antiche abbazie, che risalgono alle prime colonizzazioni benedettine nella piana. Resti notevoli si conservano della Badia di San Salvatore di Montecorona, poco a sud di Umbèrtide, e di quelle di Petroia e di San Cassiano nella bassa valle del Nestore. Lungo il corso dell’Assino, tra la vai Tiberina e la conca di Gubbio, sorge l’Abbazia di Camporeggiano, fondata da San Pier Damiano nell’XI secolo.

    Un tratto della valle dell’Assino, che scende dalla conca di Gubbio verso il Tevere.

    Risalendo la valle del Càrpina, verso la Bocca Serriola e lo spartiacque appenninico, colture e abitazioni si vanno diradando e si stendono maggiormente i pascoli e i boschi. Si passa, a poca distanza dalla fertile vai Tiberina, in un ambiente che, per quanto di altitudine ancora modesta (non si giunge mai ai iooo m.), ha tutti i caratteri delle aree montane: isolato per mancanza di buone strade, povero per i magri redditi dei terreni, coltivati per lo più a seminativi. La popolazione vive frugalmente, in povere case in gran parte sprovviste anche di illuminazione elettrica, accontentandosi di quel poco che la terra può dare. Assai diffuso è ancora l’analfabetismo (nel 1951 oltre un quinto degli abitanti del comune di Pietralunga risultavano analfabeti), e il progresso si fa strada lentamente. Da poco è cominciato l’esodo degli abitanti che vanno a cercare altrove migliori condizioni di vita: la popolazione era ancora in aumento fino a dieci anni fa, e solo negli ultimi tempi si è registrata una sensibile diminuzione (quasi il 10% in meno nel quinquennio 1951-1956).

    Vedi Anche:  Regioni naturali storiche e tradizionali

    Unico centro di quest’area montana è Pietralunga, a circa 600 m. d’altezza, nella valle del torrente Carpinella. Fu già importante castello, le cui origini si fanno risalire al secolo Vili, ed ebbe governo autonomo fino al XIII secolo, quando passò alle dipendenze di Città di Castello, con la quale rimase fino al ‘500, resistendo, grazie alla sua posizione, a diversi tentativi di conquista. Oggi è un modesto borgo (conta poco più di 700 abitanti), compatto, con le vecchie case addossate le une alle altre, raccolte intorno all’antica parrocchiale del ’300 e ai ruderi della rocca, e ancora racchiusa dalla cinta delle mura medioevali.

    Gubbio e la sua conca

    Oltre le montagne che chiudono ad oriente la parte inferiore della vai Tiberina si stende la conca di Gubbio. A nordest dominano la piana le ripide pendici del Monteleto, del monte Semonte e del monte Ingino, quasi spogli di vegetazione e separati da profonde gole : è un paesaggio aspro e severo, ben differente da quello dolce e riposante che è tipico dell’Umbria collinare; e il contrasto è particolarmente vivo quando vi si giunga da Umbèrtide, addentrandosi lungo la stretta e boscosa valle dell’Assino, che porta al Tevere le acque della parte settentrionale della piana; o da Perugia, per la strada che valica la dorsale del monte Urbino, attraversando rari, piccoli agglomerati di case, tra monti brulli, di fronte ai quali si scorgono, al di là della conca sottostante, le alte cime appenniniche fino al monte Catria.

    In questo scenario alpestre, addossata al fianco roccioso del monte Ingino, sorge Gubbio, l’antica città umbra che più di tutte ha conservato fedelmente, nei suoi palazzi, nelle sue case di pietra grigia, nel tracciato delle vie, l’aspetto del centro medioevale.

    Gubbio, scrive il Piovene, è « dell’Umbria la città più straordinaria. Non è nè dolce nè amena, ma nessun’altra ha una bellezza così alta. Questa capitale di antichi montanari appenninici…, fatta di blocchi di calcare e di mattone dalle tinte smorzate, cui solo nel Rinascimento si unì in sordina l’arenaria, ha un colore uniforme, profondo, spento. E triste ed assoluta: è, per rubare la parola ad un filosofo greco, del colore dei morti ».

    Colline presso Gubbio.

    Isolata in mezzo alla sua conca, tagliata fuori, oggi come nei tempi più antichi, dalle grandi vie di comunicazione, Gubbio ha sempre avuto una vita propria, restando legata a tradizioni e costumi del passato, tanto che può essere considerata quasi il simbolo deirUmbria primitiva e medioevale. E significativo che proprio qui si siano trovate e si conservino le famose sette tavole di bronzo, scritte parte in caratteri etruschi e parte in caratteri latini, che rappresentano la più importante e più lontana testimonianza sulle usanze rituali degli antichi popoli italici.

    Il periodo romano non ha lasciato nella città tracce cospicue : i ruderi di una tomba ed il Teatro, di età augustea, sono gli unici avanzi di quell’epoca, in cui Gubbio non aveva più una posizione preminente nella regione, mentre emergevano altri centri più vicini a Roma e meglio favoriti dalle comunicazioni.

    Dopo le distruzioni da parte dell’esercito di Totila, Gubbio risorse ben presto, soccorsa da Narsete; durante l’invasione longobarda rimase soggetta agli Esarchi di Ravenna e cominciò il suo distacco dall’Umbria, a cui non appartenne più fino al 1860. Già nel secolo XI la città si reggeva a libero comune, e in seguito partecipò alle lotte municipali, ora parteggiando per l’imperatore, ora per i guelfi. Ottenne privilegi dal Barbarossa, dopo che questi, per intercessione del vescovo Ubaldo Baldassini, si ritirò dalla città, a cui aveva posto l’assedio; e i privilegi furono riconfermati da Enrico VI e Ottone IV.

    All’inizio del 1200 Gubbio ebbe il suo primo podestà e iniziò il periodo di maggiore grandezza, che culminò nella prima metà del secolo XIV, quando la città pare raggiungesse una popolazione di circa 50.000 abitanti, cifra assai ragguardevole pure se probabilmente vi si comprendeva anche il contado.

    Si elevarono allora i grandi palazzi pubblici, testimoni e segni della ricchezza e della libertà comunale, e furono terminati i lavori dell’acquedotto che, derivando le acque dal torrente Camignano, assicurava il rifornimento idrico alla città e alle sue industrie.

    Dal 1350 Gubbio fu per qualche anno sotto la signoria di Giovanni Gabrielli, quindi fu conquistata, con altre città dell’Umbria, dal cardinale Albornoz. Il comune rivendicò la libertà nel 1376, ma, dopo aver lottato contro la signoria del vescovo Gabrielli e contro la dominazione pontificia, la città, assediata e minacciata di carestia, fu costretta a darsi ai Montefeltro, signori di Urbino. Sotto i Montefeltro, anche se non ebbe subito la pace, godette tuttavia di un nuovo periodo di floridezza civile ed artistica, e con Federico da Montefeltro ebbe lo splendore di una corte e si arricchì del bellissimo Palazzo Ducale, costruito, pare su disegno del Laurana, ad imitazione di quello maggiore di Urbino, del quale ripete l’eleganza delle linee e delle decorazioni, particolarmente all’interno, nei saloni e nel piccolo, armonioso cortile. In quest’epoca fiorì anche l’arte della ceramica, che, sorta già nel Trecento, ebbe tra il Quattrocento e il Cinquecento grande fama per l’opera di Giorgio Andreoli da Intra, divenuto poi cittadino eugubino e più noto con il nome di Mastro Giorgio.

    Successi ai Montefeltro i Della Rovere, Gubbio continuò a far parte dello Stato di Urbino, finché nel 1631, estintasi la dinastia, passò alla Chiesa, restando poi sempre aggregata alla delegazione di Pesaro e Urbino; ritornò all’Umbria solo con il nuovo ordinamento italiano, dopo l’annessione.

    Una caratteristica via di Gubbio con in alto il palazzo dei Consoli.

    La città, costruita tutta in pendio sulle ultime falde del monte Ingino, dall’alto del quale, presso le rovine della Rocca, domina il convento di Sant’Ubaldo, ha forma allungata, con le vie principali pianeggianti e all’incirca parallele, unite da strade trasversali a forte pendenza e da gradinate, specie nella parte più alta. In basso si apre un vasto spiazzo parzialmente occupato da un giardino, e limitato da una parte dell’ex-convento di San Francesco, con la bella chiesa gotica costruita forse alla fine del XIII secolo e attribuita a fra Bevignate da Perugia. Sul lato opposto è l’antico Tiratoio dell’Arte della Lana, con un lungo e rustico portico e a fianco una piccola chiesa trecentesca. In alto, tra le file di case in pietra grigia, dai tetti rossastri, spiccano gli edifici più significativi della città. Su tutti s’innalza il Palazzo dei Consoli, uno dei più bei palazzi pubblici dell’età di mezzo, con l’agile torretta della campana comunale che si staglia sullo sfondo roccioso della montagna; di fronte, sull’altro lato della piazza della Signoria, è il Palazzo Pretorio; più in alto, il campanile del Duomo, a sinistra del quale s’intrawede il Palazzo Ducale.

    Ma l’aspetto più caratteristico di Gubbio si rivela percorrendone le strade medioevali, silenziose, dove appaiono qua e là antiche torri e chiese gotiche. Sulla austera facciata delle case, annerite dal tempo, sono frequenti le porte e le finestre murate, e si vede spesso, accanto alla porta principale, una porta più stretta e lunga, con la soglia alquanto elevata sul piano stradale: è la cosiddetta porta del morto che, secondo la tradizione, si apriva soltanto per lasciar passare le bare dei defunti e veniva poi di nuovo murata, tenendo distinto il passaggio dei vivi da quello dei morti. Spiegazione suggestiva per interpretare la presenza delle porte murate, ma forse solo in parte corrispondente alla realtà: probabilmente quelle strette porte erano l’unica via per salire al primo e al secondo piano, mentre le porte più vaste, all’altezza del piano stradale, servivano di accesso ai fondachi e alle botteghe; e furono ragioni di sicurezza a consigliare di costruire le porte di entrata all’abitazione anguste e ad un livello più alto di quello della strada, alla quale erano spesso collegate con scalette mobili.

    Vedi Anche:  Perugia, Assisi, Foligno e Folignate

    Al centro, dove convergono i quattro quartieri della città, è la piazza della Signoria, rettangolare, limitata sui due lati minori dal Palazzo Pretorio e dalla facciata del Palazzo dei Consoli, con la bella scala a ventaglio che sale sul dorso di un arco rampante. Verso valle, la piazza, sostenuta da quattro gigantesche arcate, che la innalzano sulla via sottostante, appare come una grande terrazza, dal cui parapetto si domina la parte bassa della città e gran parte della piana, limitata di fronte dalle colline: è il paesaggio che fa da sfondo alla fase culminante della Corsa dei Ceri, quando le pesanti macchine, compiute le ultime evoluzioni, si slanciano per la ripida salita del monte; e nel quale s’inquadra l’altra antichissima gara dei Balestrieri, che rievoca lontane tradizioni medioevali.

    Alla fisionomia della città antica quasi nulla si è sovrapposto nei tempi più recenti : lentissimo lo sviluppo topografico, tanto da non incidere, come invece è avvenuto in altri centri dell’Umbria, sull’aspetto dell’abitato; quasi stazionario negli ultimi due secoli il numero degli abitanti, che erano poco più di 6300 verso la metà del secolo XVIII e circa altrettanti ancora nel 1936, per salire poi a 8756 alla data del censimento del 1951. Tutto il territorio eugubino, che comprende il vasto comune capoluogo, il maggiore dell’Umbria per superfìcie, e i piccoli comuni montani di Costacciaro e Scheggia, è del resto poco popolato, e da qualche tempo vi si verifica un sensibile spopolamento, specie nella montagna.

    Le condizioni economiche della città, come del territorio che gravita su di essa, risentono in complesso della situazione generale dell’Umbria, aggravata dal maggiore isolamento di quest’area, chiusa tra le montagne e posta ai margini della regione. La campagna resta ancorata ai sistemi e alle colture tradizionali : vi si può ancora vedere di frequente il caratteristico carro umbro, o l’aratro trainato da due o tre coppie di buoi, e le pannocchie di granturco appese sull’aia, in lunghi grappoli, ai rami di noci secolari. Ancora poco diffuso è il tabacco, e nella piana fertile ma non ricca d’acqua prevalgono le colture dei cereali, alle quali si alterna la vite, e, sulle basse pendici dei versanti a solatìo e riparati dai venti freddi della montagna, l’olivo, che però qui, ai limiti climatici dell’area di coltura, non ha l’importanza che assume invece nell’Umbria collinare.

    Scarso il movimento commerciale, ostacolato dalla deficienza delle comunicazioni, anche se una buona strada, che attraversa la conca in tutta la sua lunghezza, la collega da una parte alla vai Tiberina, dell’altra alla via Flaminia presso Fossato di Vico, sostituendo la ferrovia a scartamento ridotto che, distrutta durante la guerra, non è stata più riattivata.

    L’arte della ceramica conserva a Gubbio i modelli e le decorazioni tradizionali.

    Modesta pure, e per le stesse ragioni, l’attività industriale, rappresentata principalmente da qualche cementificio che utilizza i calcari locali. Le piccole industrie tradizionali, a carattere artigianale, che si basavano sulla lavorazione dei prodotti locali, come la filatura e tessitura della lana e della seta, sono ormai tramontate.

    Sopravvivono invece quelle attività che si ricollegano alla tradizione artistica del periodo più fortunato della storia di Gubbio : la lavorazione del ferro battuto, comune ad altri centri umbri, e l’arte della ceramica. Quest’ultima, benché anch’essa diffusa in altre località della regione, conserva a Gubbio un carattere particolare, tipicamente artigianale e individuale. La materia prima è data dalle argille lacustri che si cavano a qualche metro di profondità sotto le alluvioni recenti nel fondo della conca. Particolare pregio ha la decorazione che segue ancora i modelli cinquecenteschi della scuola di Mastro Giorgio, col quale le maioliche eugubine acquistarono grande fama. La lavorazione, che viene fatta generalmente a mano, si effettua nelle vecchie botteghe che si aprono lungo le vie medioevali, specie nei pressi della piazza della Signoria: laboratorio e vetrina nello stesso tempo, la bottega artigianale si inquadra perfettamente nell’atmosfera antica di Gubbio, e costituisce anche un’attrattiva turistica che si aggiunge a quella dei monumenti e dei ricordi artistici.

    Nonostante la suggestione del paesaggio e della città, il turismo non offre tuttavia grandi risorse: Gubbio è, si può dire, dimenticata e lasciata in disparte dagli itinerari turistici che fanno capo di preferenza a centri di maggiore richiamo, sia artistico che religioso, ed è prevalentemente meta di un turismo individuale, e di passaggio, che non può incidere in modo sensibile sull’economia locale.

    I centri minori della conca sono pochi e di modesta importanza, poiché la popolazione vive per lo più sparsa nella campagna o riunita in piccoli nuclei. Il più popoloso, con circa 500 abitanti, è Padule, poco a sud di Gubbio, sulla strada che conduce a Fossato di Vico, paese in gran parte moderno, poco lontano dall’antica abbazia di Castell’Alfiolo, ora centro di una vasta tenuta coltivata in gran parte a tabacco.

    All’estremità meridionale della conca, ormai presso le rive del Chiascio che ne segna il limite, s’incontra Branca, col centro moderno in basso, lungo la strada, in una zona ricca di giacimenti di lignite già attivamente sfruttati, e il villaggio antico, più in alto, sulla collina.

    Da Gubbio una strada sale, percorrendo la gola del torrente Camignano tra il monte Foce e il monte Ingino, verso lo spartiacque e la valle del Sentino. Il primo tratto si svolge incassato tra ripide pareti di calcare bianco e rosso, fino al cosiddetto « Bottaccione », a circa 2 km. dalla città, dove il torrente fu sbarrato nel Trecento in modo da formare un bacino lungo un centinaio di metri, che alimenta l’antico acquedotto, ancor oggi in funzione. Superato il passo di Gubbio, si scende tra pendici coperte di querceti, con qualche vigneto e radi campi e pascoli, verso Scheggia, sulla via Flaminia, forse antica stazione romana, oggi piccolo paese che conta poco più di 500 abitanti. Siamo ormai nella zona montuosa che divide l’Umbria dalle Marche.

    Tra le pendici dirupate e rocciose si annidano alcuni piccoli villaggi: Ponte Calcara, Isola Fossara, Pascelupo ; ed antichi eremi ed abbazie medioevali ; Sant’Emiliano, con una chiesa gotica, ben conservata, del XII secolo, e Santa Maria di Sitria, fondata da San Romualdo poco dopo il Mille e dipendente dalla famosa abbazia di Fonte Avellana, che sorge poco più a nord, sul fianco orientale del Catria.

    A sud di Scheggia si estende una vallata alquanto ampia, percorsa dal torrente Chiasciolo, che confluisce poi nel Chiascio e trae origine dalle sorgenti perenni che sgorgano alla base dei monti calcarei sulla sinistra. Ai piedi di questi il versante scende con lievissimo pendio verso il letto del torrente e le campagne ben coltivate, con i lunghi filari di vigneti, fanno un vivo contrasto con le nude pendici delle vicine montagne.

    Al limite fra le due zone passa la via Flaminia, sulla quale si allinea una serie di nuclei e piccoli centri abitati. Il maggiore di essi, Costacciaro, conta un migliaio di abitanti e sorge su un poggio alle falde del monte Cucco, a circa 500 m. sul mare. Ha una pianta regolare, con vie che si tagliano ad angolo retto, ed è cinto di mura e torri, resti delle antiche fortificazioni medioevali, come la Rocca, che domina il paese e della quale si conservano i ruderi: Costacciaro fu infatti per secoli un’importante base di difesa del territorio eugubino, sul confine con il dominio perugino e poi con quello pontificio.